La mia esperienza con il Foundation Programme, Parte 3/3

Quasi due anni fa, il 3 agosto 2016, ho cominciato il Foundation Programme, il programma di training post-laurea di 2 anni che tutti i medici in UK devono completare per ottenere l’abilitazione e accedere al training di specialità. Essendo giunto alla fine, ho deciso di scrivere un post con un resoconto della mia esperienza. Questo post è indirizzato soprattutto a studenti di medicina e colleghi interessati alla formazione medica in UK, ma cercherò di spiegare le cose in modo che l’articolo risulti comprensibile anche a chi non è familiare con l’argomento. Per semplicità, ho deciso di suddividere il tutto in 3 grossi post: il prima, il durante, e il dopo.

In generale non ho niente da nascondere, ma preferisco non rendere ovvia la mia identità, per cui rimarrò intenzionalmente vago circa i luoghi nei quali ho fatto il FP. Parlerò delle mie esperienze in generale, con l’idea di fare un bilancio di questi due anni, e cercherò di evitare di riferirmi ad esperienze specifiche.

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Parte 3: Dopo il Foundation Programme

In questo terzo ed ultimo post cercherò di tirare le somme della mia esperienza, e parlerò di cosa succede dopo il FP.

Cosa mi ha lasciato il Foundation Programme

Dato che non ho mai lavorato in Italia, non sono in grado di fare un paragone tra il training in UK e quello in Italia, ma posso certamente dire che cosa ho imparato e che cosa mi è rimasto di questi due anni.

Prima di tutto, sono cresciuto professionalmente e ho imparato a fare il medico, in generale. Mi ricordo come durante le prime settimane mi sentissi estremamente insicuro di fronte a qualunque decisione che non fosse prescrivere del paracetamolo. Adesso sono molto più sicuro di me, sono entro certi limiti indipendente, so gestire situazioni stressanti, e anche di fronte a emergenze o arresti cardiaci non perdo la calma.

Una cosa che sicuramente mi è rimasta dal training in UK è l’approccio ABCDE di fronte al paziente acutely unwell, che in Italia durante i miei anni all’Università non era mai stato molto enfatizzato, mentre qui ti viene inculcato sin dal primo giorno. Quando si legge l’approccio ABCDE sulla carta, sembra composto di una serie di ovvietà e banalità; tuttavia se ne capisce la reale utilità quando ci si trova in situazioni stressanti. L’approccio ABCDE è semplice, si ricorda facilmente, e ti consente di iniziare ad agire in modo sistematico e strutturato in una emergenza, senza dimenticarti niente di fondamentale. Questo è molto utile perché talvolta di fronte ad una emergenza inaspettata può succedere di “bloccarsi” o farsi prendere dal panico, iniziando a fare le cose in modo poco sistematico e disordinato; in queste situazioni l’approccio ABCDE consente di “sbloccarsi” e mettere in moto il cervello (“Ok, calma – A, Airways… ok è cosciente e sta parlando. B, Breathing, la saturazione è bassa, diamogli dell’ossigeno, e poi ausculterò il torace…”). Durante il FP ho anche acquisito i certificati obbligatori di ILS e poi ALS, che mi hanno reso un minimo competente nella gestione di un arresto cardiaco. Sono anche diventato ragionevelmente competente in un numero di procedure pratiche di base come la cannulazione, gli emogas, la cateterizzazione ed i prelievi venosi. Ovviamente non tutte queste skills mi saranno utili in futuro, ma al momento se non altro mi sento un medico competente e “a tutto tondo”.

Un’altra cosa ovvia è che ho lavorato in un numero molto ampio di specialità. Ho visto pazienti affetti da patologie estremamente diverse. Nello spazio di due anni ho avuto la possibilità di vedere pazienti con appendicite acuta, pazienti acutamente psicotici e agitati, pazienti con gravi esacerbazioni di asma, pazienti con demenza avanzata e delirium, e pazienti con pre-eclampsia o altre complicanze ostetriche. Ho acquisito familiarità con un corrispondente numero di farmaci, procedure, esami diagnostici e terapie. Saper trattare una patologia è qualcosa di più che sapere genericamente quale classe di farmaci è indicata – prescrivere un farmaco significa saper selezionare un farmaco specifico, selezionare una dose specifica, una modalità ed una frequenza di somministrazione, ed essere familiari con i suoi effetti collaterali. Per esempio, adesso sono piuttosto a mio agio nel trattare il dolore (postoperatorio o meno), e a seconda del paziente che ho davanti so decidere quando prescrivere del paracetamolo, dell’ibuprofene, del diclofenac, del tramadolo, della morfina (orale, intramuscolo o addirittura endovena) o dell’ossicodone, e in che dosi. Sono piuttosto a mio agio nella prescrizione di antidepressivi, benzodiazepine e antipsicotici, e so per esempio quali psicofarmaci prescrivere, a quali dosi e con che modalità, in molte situazioni diverse, da una donna incita o che sta allattando e affetta da depressione (sertralina), a un paziente psicotico e agitato (2 mg di lorazepam più 5 mg di alopeidolo intramuscolo); so che effetti collaterali aspettarmi, e probabilmente nel secondo paziente prescriverò della prociclidina nel caso in cui sviluppi effetti avversi di tipo extrapiramidale. Se mi trovo davanti ad un paziente in shock settico dove sospetto una sepsi intraddominale, so già che voglio somministrargli fluidi endovena in modo aggressivo, e so già che prescriverò tre antibiotici endovenosi che costituiscono la terapia standard di una sepsi intraaddominale: metronidazolo 500 mg ogni 8 ore, gentamicina, e amoxicillina 1 grammo ogni 8 ore. Se mi trovo di fronte a una grave esacerbazione di BPCO, so che prescriverò “di riflesso” salbutamolo 5mg nebulizzato accompagnato a 500 microgrammi di ipratroprio bromuro nebulizzato, steroidi orali (prednisolone 30 o 40 mg) e magari antibiotici. Se il paziente appare sonnolento e confuso, so che farò un emogas; se da questo emerge che il paziente ha un pH di 7.3 e una CO2 elevata, riconosco istantaneamente il pattern di una insufficienza respiratoria di tipo 2 e so immediatamente cosa devo fare (NIV!).

Incidentalmente, lavorare in un numero di specialità così diverse mi ha permesso di conoscermi un po’ meglio, e capire davvero cosa mi piace e cosa non mi piace del lavoro di medico. In effetti, la mia prospettiva è cambiata così tanto che adesso l’idea di dover scegliere una Specializzazione (qualcosa che si farà per il resto della vita) senza aver mai davvero lavorato come medico, come succede in Italia, mi sembra impensabile. Ed è vero che si può frequentare il reparto, ma mi sono reso conto che frequentare un reparto da studente, e lavorare come medico in un reparto, sono due cose molto diverse.

Prima di tutto, studiare le varie specialità quando si fa l’Università non è la stessa cosa che fare qualcosa tutti i giorni, come lavoro. Una branca della medicina può appassionarti quando sei studente, ma essere poco interessante o stimolante nella pratica clinica. Anche il contrario può essere vero: una branca delle medicina può essere molto noiosa quando si studia, ma stimolante nella pratica clinica.

Secondariamente, una specialità può essere interessantissima, ma magari non ci si è molto portati, o comunque può risultare poco adatta per lo stile di vita che si ricerca e il tipo di medico che si vuole essere. Ci sono un sacco di fattori correlati alla propria personalità, al proprio carattere, e alle proprie aspirazioni, che hanno una grande importanza nella scelta della specialità, e di cui però non si ha una reale percezione quando si è studenti universitari. Per esempio, quanto gestisci bene lo stress e la pressione; se ti piace essere busy, oppure se ti piace poter fare le cose con calma; quanto ti piacciono le emergenze; quanto è importante per te avere un equilibrio tra la vita lavorativa e la tua vita personale; quanto sei bravo con le cose pratiche e manuali; da cosa trai realmente la soddisfazione alla fine della tua giornata lavorativa.

Lavorando, ho visto confermate impressioni che avevo avuto da studente (odiavo chirurgia generale da studente, e l’ho odiata da medico; psichiatria mi affascinava da studente, e mi è piaciuta tantissimo da medico). Ho avuto anche delle soprese – per esempio, da studente ritenevo Ostetricia e Ginecologia non molto entusiasmante come specialità, ma da medico devo dire che non mi è dispiaciuta (anche se non la sceglierei come carriera per il resto della vita). Da studente non credevo che sarei mai stato bravo o competente nelle procedure pratiche, come inserire cannule – ma adesso che lo faccio da un po’ mi rendo conto che in realtà non sono niente male.

La vita del junior doctor è dura?

Mi trovo a dover rispondere affermativamente. Questi due anni sono stati molto impegnativi per me. Una parte delle sfide e degli ostacoli sono stati dati dal semplice fatto di trasferirsi all’estero dopo aver vissuto tutta la vita in Italia, con conseguente shock linguistico e culturale. A questo ho dovuto aggiungere la transizione da studente a medico, che è dura per tutti, ma è ancora più dura se lo fai in un sistema in cui non sei stato formato, in una lingua che non è la tua, e lontano da amici e famiglia.

Lavorare come medico in UK in generale è dura. Un recente sondaggio del GMC ha evidenziato come i medici siano stanchi e stressati. Quasi l’80% ha affermato di lavorare oltre gli orari previsti dal loro contratto almeno una volta alla settimana, e il 25% dei medici ha affermato di non dormire abbastanza almeno una volta alla settimana. Circa il 40% dei medici in training ha valutato l’intensità media del lavoro come “heavy” o “very heavy”. Nella mia esperienza personale, devo dire che i turni sono effettivamente lunghi, densi e faticosi, il tempo libero poco, e le cose da fare tante. Durante la mia rotation in Chirurgia Generale, eravamo short-staffed, ed il mio orario era orrendo perché dovevamo coprire i turni dei colleghi mancanti. Questo ha significato 4 lunghi mesi di turni di 12 ore uno dietro l’altro. Durante i pochi, preziosi giorni off tra una serie e l’altra di turni massacranti ero troppo stanco (fisicamente e mentalmente) per fare qualunque cose che non fosse navigare l’Internet senza meta. Credo che quello sia stato il periodo più stancante di tutto il Foundation Programme.

Insomma, se per voi è importante avere una vita comoda e tanto tempo libero, penso che il Foundation, e in generale una carriera in UK, non sia una buona scelta.

Tirando le somme, consiglieresti il Foundation Programme?

L’unica risposta possibile a questo domanda è: dipende.

Prima di tutto, merita ribadire che non ho mai lavorato in Italia; ho esperito unicamente il lavoro da medico in UK, per cui non ho un reale termine di paragone. Posso dire di essermi trovato bene, di non essermi pentito di essere venuto in UK, e di voler continuare a lavorare qui. Penso che, a prescindere da tutto il resto, trasferirmi e lavorare in un altro paese sia stata un’esperienza pazzesca, fantastica. Sono cresciuto sia a livello personale che professionale, e, se tornassi indietro, farei le stesse scelte. Certamente, sono stati due anni impegnativi e faticosi. Nessuno ha steso un tappeto rosso per me quando sono arrivato. Se valga la pena o meno, dipende da cosa è importante per voi.

Se per voi è importante avere una buona qualità della vita, probabilmente il FP non è una buona scelta. La vita del medico in UK non è una pacchia – il tempo libero è tendenzialmente poco, il lavoro è spesso stressante e la paga, anche se più alta che in Italia, non è che sia principesca. Inoltre, doversi spostare continuamente è una grossa seccatura. Se si viene da fuori, si parte svantaggiati dal punto di vista linguistico, culturale e del training, per cui, specie all’inizio, si fa molta più fatica dei colleghi british.

Se pensate di avere difficoltà ad entrare in specializzazione in Italia, e sperate di avere più successo in UK, probabilmente il FP non è una buona scelta. Non sono riuscito a trovare statistiche precise, ma l’impressione che ho è che l’accesso al training di specialità post-foundation sia più competitivo che in Italia. Mentre il FP non è molto competitivo, per cui c’è posto quasi per tutti, le selezioni successive sono progressivamente più competitive e può essere molto, molto difficile rientrare nella specialità desiderata, specialmente se non vi siete laureati qui e non siete british. Prima di venire, informatevi e cercate di capire se le vostre aspettative sono realistiche (es. entrare in Specialty Training in Cardiochirurgia a Londra sarà molto difficile).

Consiglierei il FP se vi piace il modo in cui è organizzato il training, e non vi spaventa l’idea di farvi il mazzo. In particolare, il FP fa al caso vostro se vi piace l’idea di sperimentare un sacco di specialità diverse, se siete un po’ indecisi circa il vostro futuro, se vi piace mettervi in gioco, e se vi piace la possibilità di svilupparvi “a tutto tondo”, incluse procedure pratiche. Non è molto adatto se siete “ossessionati” da una specialità in particolare, vi interessa essere gli esperti di quella specialità e non vi interessa molto del resto della medicina.

Cosa succede dopo il Foundation Programme

Quando ho iniziato il Foundation Programme, non avevo alcun programma a lungo termine. Non sapevo se avrei continuato a lavorare in UK, oppure se sarei tornato in Italia una volta ottenuta la Full Licence to Practise. Durante il Foundation, mi sono trovato bene a lavorare in UK, e ho deciso che mi piacerebbe completare il training qui.

Come funziona il training in UK dopo il Foundation? In pratica, l’organizzazione del training cambia a seconda della specialità.

Per la maggior parte delle specialità mediche e chirurgiche e per psichiatria, il training è “uncoupled“, cioè separato in due fasi – una fase iniziale di Core Training, seguita da una fase di Higher Training. Questa immagine illustra il processo per le specialità mediche, a titolo esemplificativo:

In una prima fase, chiamata Core Training (2 o 3 anni) si continua a lavorare in diverse specialità, con l’obiettivo di espandere le proprie competenze.  Nel caso del Core Medical Training (CMT), si lavorerà in specialità mediche; nel caso del Core Surgical Training, si lavorerà in specialità chirurgiche; nel caso del Core Psychiatric Training, si lavorerà nelle diverse sottospecialità della Psichiatria (es. Old Age Psychiatry, General Adult Psychiatry, Child & Adolescent, Forensic, etc).

Tra il Foundation Programme e il Core Training c’è un processo di selezione notevolmente più competitivo del FP – l’accesso non è libero. Durante questi due o tre anni di Core Training, si deve superare un complesso esame in più parti al fine di ottenere la membership del Royal College relativo al proprio percorso: Royal College of Physicians per il Core Medical Training, Royal College of Surgeons per il Core Surgical Training, e Royal College of Psychiatrists per il Core Psychiatry Training. Una volta superato, si può fare l’application per lo Specialty Training, cioè il training in una branca specifica della Medicina, della Chirurgia o della Psichiatria, anche qui con un processo di selezione più o meno competitivo a seconda della specialità. Il passaggio da ST1-2 a ST3 è il punto in cui si passa da SHO a Registrar. Lo Specialty Training dura dai 4 ai 6 anni a seconda della specialità, e concettualmente è la parte del training che più da vicino corrisponde alla nostra specializzazione. Tuttavia, è chiaro come prendere una specializzazione in UK non abbia niente a che fare con il prendere la specializzazione come la intendiamo in Italia, dato che in UK un medico si specializza dopo almeno 4 anni di lavoro!

Mentre da noi la Specializzazione è vista come un traguardo da raggiungere il più velocemente possibile, qui non tutti la vedono così; il training è visto come un percorso che porta da neolaureato a Consultant (o GP), e molte persone non hanno particolare fretta di finire.

Altre specialità, come per esempio Pediatria, Oftalmologia, o Ostetricia e Ginecologia, sono organizzate in modo differente, attraverso programmi cosiddetti “run-through”, e che potremmo tradurre come “a ciclo unico”. In altre parole, si entra direttamente nel percorso di training dopo il FP, e si continua sempre nella stessa specialità, da es. ST1 a ST8. Dopo la selezione iniziale, non c’è un processo di selezione ulteriore – si continua a progredire, specializzandosi progressivamente.

Per diventare General Practitioner (cioè il nostro Medico di Medicina Generale), il training è tecnicamente run-through, ma in pratica funziona in modo un po’ diverso.

La principale differenza è che il training è molto più breve di altre specialità. Dopo il Foundation programme, c’è un processo di selezione. Una volta superato, si accede ad una fase di training di 3 anni (GPST1-GPST3), e se tutto va bene alla fine si è diventati GP. Anche in questo caso, si deve passare un esame in più parti per ottenere la membership del Royal College of General Practitioners. Le rotations sono decise dalla Deanery; in genere 18 mesi devono essere in specialità ospedaliere, mentre 18 mesi sono in GP. Rotations comuni sono: varie specialità mediche, Care of the Elderly, Paediatrics, Community Paediatrics, Obstetrics and Gynaecology, Psychiatry, ENT, Accident and Emergency, Dermatology, Ophthalmology, Oncology e Palliative Care.

Se volete più informazioni, questo PDF interattivo della BMA illustra il processo di training più in generale.

Applications!

In genere le application per il percorso di training dopo il Foundation Programme iniziano verso Novembre-Dicembre per Agosto dell’anno successivo, sicché nella prima parte di FY2 si deve aver già deciso (più o meno) che cosa vi piacerebbe fare. Ovviamente, niente vi impedisce di non applicare, e magari prendervi un anno alla fine del Foundation per sperimentare un po’ e acquisire più esperienza (es. facendo dei locum, cioè delle sostituzioni) – un opzione colloquialmente nota come “FY3”.

Nel mio caso, all’inizio del Foundation Programme avevo idee abbastanza confusesapevo cosa non volevo fare (es Chirurgia) ma non sapevo bene cosa mi piacesse davvero. Ho considerato varii possibili percorsi, ma alla fine le specialità che mi attraevano di più erano Core Medical Training (mi piace molto la medicina interna e l’idea di essere un generalista), General Practice (anche questa una specialità molto generalista), e Psichiatria (molto specialistica, ma mi affascinava da studente e mi era piaciuta come lavoro durante il FP). Volendo avrei potuto fare il concorso per tutte e tre, ma questo avrebbe significato trovare il tempo per fare diverse job interview per il processo di selezione tra Gennaio e Febbrario – e dovendo lavorare a tempo pieno, non è affatto facile! Mi sono quindi deciso a fare una selezione, e fare l’application solo per due specialità.

Durante la mia rotations in Ginecologia e Ostetricia, ho notato che in generale non mi trovo molto bene a lavorare con i pazienti “worried well”. Il paziente “worried well” è quello che fondamentalmente non ha niente, o non ha niente di serio, ma che si reca dal medico per essere rassicurato o perché preoccupato di avere qualcosa di grave. Tipicamente questi pazienti si presentano con dolori non specifici, oppure sintomi vaghi (per es. vertigini), con pochi o nessun elemento oggettivo a sostanziare i sintomi.  Una minoranza di questi paziente tende a presentarsi ripetutamente e frequentemente, costituendo i cosiddetti “frequent flyers”. Da parte del medico ci può essere una forte tentazione a praticare medicina difensiva, cioè richiedere esami inutili per trattare la propria ansia, invece che richiedere un esame perché si ritiene che il paziente ne abbia davvero bisogno. Questo ovviamente rischia di causare danno iatrogeno, e, a livello di sanità pubblica, è una fonte di sprechi. Ho incontrato un sacco di pazienti così soprattutto durante la mia rotation in O&G perché, come parte del mio lavoro, coprivo una Obstetric Day Case Unit, dove le pazienti potevano semplicemente venire senza bisogno di passare prima da un medico. La mia stima è che circa l’80%-90% delle pazienti che ho visto fossero worried well. Sebbene la mia capacità di gestire questi pazienti senza causare troppo danno iatrogeno sia migliorata con l’esperienza, mi sono reso conto che non traggo particolare soddisfazione professionale nell’avere a che fare ogni giorno con un gran numero di pazienti che non hanno niente di serio. Ho quindi escluso General Practice dalla lista delle specialità a cui avrei applicato, dato che i worried well costituiscono una grossa fetta della popolazione di pazienti che un GP vede ogni giorno.

Alla fine ho deciso di  fare l’application per Core Medical Training e Core Psychiatry Training.

L’application per il Core Medical Training, in breve

Così come ho fatto per il Foundation Programme, non spiegherò in dettaglio il processo dell’application, passo per passo, perché tanto cambia ogni anno; mi limiterò a parlarne in generale, facendo riferimento alla mia esperienza. Informazioni dettagliate sul processo dell’application per il CMT si trovano qui.

In genere le application aprono nei primi giorni di Novembre, e chiudono alla fine del mese. Per fare l’application mi sono dovuto registrare sul sito Oriel, che negli ultimi due anni sembra essere divenuto il principale portale per il reclutamento di professionisti nell’NHS, incluso il Foundation Programme. Attraverso Oriel ho fatto l’application sia per CMT che per Psych.

Nel caso del CMT, una parte dell’application piuttosto dispendiosa in termini di tempo è data dall’application scoring. Al fine di effettuare una graduatoria dei candidati, si riceve un punteggio che è basato in parte sul curriculum e in parte su un colloquio, come spiegato in dettaglio qui. Ci sono diverse categorie (Undergraduate qualifications, Postgraduate qualifications, Additional achievements, Presentations and posters, Publications, Teaching, Quality Improvement, Leadership and management), e per ogni categoria si riceve un punteggio a seconda di cosa si possa presentare come evidence. Per ogni categoria, ci sono criteri piuttosto specifici che guidano l’auto-assegnazione del punteggio: per esempio, nel caso della categoria Presentations and Posters, se si è fatta una presentazione orale ad meeting nazionale o internazionale, si ottengono 6 punti;  mentre se la presentazione è stata ad un meeting locale (es organizzato dall’Ospedale o dall’Università), si ottengono solo 2 punti. La cosa fondamentale è che per ogni cosa che si dichiara, si devono presentare delle prove concrete. Se non si è in grado di presentare delle prove, qualunque cosa abbiate fatto non conta niente.

Se si raggiunge un punteggio sufficiente al momento dell’application, si viene invitati ad effettuare un colloquio. L’invito arriva alla fine di Dicembre, mentre i colloqui con i candidati si tengono tra Gennaio e la fine di Febbraio. Il colloquio non è una chiacchierata libera, dove avete modo di far vedere quanto siete simpatici e brillanti: è in realtà un qualcosa di molto strutturato e quasi meccanico. Ci sono tre “stations” (cioè tre parti, con commissari diversi); ogni stazione dura esattamente 10 minuti. Quando dico esattamente, intendo dire che c’è letteralmente un cronometro, e quando il tempo è finito, significa che è finito, quindi vi fanno alzare e andare via, anche se eravate a metà frase. In ogni stazione, mi sono state fatte due domande – quindi ho avuto solo 5 minuti per parlare. Alla job interview si devono portare due faldoni, che dovrete assemblare secondo precisi criteri. L’Eligibility folder contiene i documenti necessari a dimostrare che si è eligible, cioè che si soddisfano i criteri essenziali per essere candidabili (es. la vostra laurea originale, il vostro passaporto, etc). L’Evidence folder contiene la evidence che avrete utilizzato durante l’application scoring; per esempio, se avete dichiarato di avere delle pubblicazioni, dovrete inserire una qualche prova (come per esempio l’articolo stesso).

La prima station consiste in una revisione del vostro Portfolio e della evidence che avete presentato. I commissari ricevono ed esaminano l’Eligibility folder e l’Evidence folder prima che voi entriate nella stanza Se l’evidence che avete presentato non è convincente, vi toglieranno punti. A me sono stati chiesti chiarimenti su alcune cose che avevo dichiarato, e poi mi è stata fatta una domanda volta a valutare se sono adatto e motivato a fare il CMT (per esempio: Come mai vuoi fare il Core Medical Training? Cosa hai imparato durante questi due anni di FP? etc). Durante la seconda station, vengono valutate le vostre capacità cliniche. Vi verrà presentato uno scenario clinico e voi dovete descrivere come approccereste questo scenario. Per esempio: “sei un CT1 in una acute medical assessment unit e arriva un paziente di 65 che sta vomitando sangue. Che fai?“. La terza station è incentrata sull’etica professionale, e richiede una solida conoscenza dei principi del Good Medical Practice del GMC, il codice deontologico per i medici che lavorano in UK. Vi verrà presentato uno scenario spinoso e, come nella seconda station, vi verrà chiesto come approccereste questo scenario. Per esempio: “sei un CT1 in un reparto di geriatria. Uno dei tuoi pazienti ha una forma avanzata di demenza, e il tuo team non ritiene ancora pronto per le dimissioni. Vieni informato da una delle infermiere che i suoi familiari sono arrivati in reparto, e intendono portarlo a casa con le buone o con le cattive. Sono chiaramente arrabbiati e stanno diventando verbalmente e fisicamente aggressivi verso lo staff. Che fai?” Con le vostre risposte dovrete dimostrare di conoscere e saper applicare i principi etici in gioco (es. capacity, consent, etc) ma anche di essere una persona di buon senso. Durante la terza station mi è anche stata fatta un’altra domanda, ma adesso ho un vuoto mentale e non me la ricordo!

In generale, ho trovato la job interview per il CMT poco soddisfacente a causa del poco tempo disponibile per parlare e per l’impostazione molto meccanica e impersonale. Ho avuto l’impressione di essere sempre “di corsa” e di non aver tempo di sviluppare adeguatamente le mie argomentazioni, o dimostrare un po’ della mia personalità. In parte c’erano sicuramente dei fattori culturali in gioco (es la tendenza italiana a fare un sacco di discorsi vaghi e preamboli vs la tendenza anglosassione ad essere concisi e arrivare direttamente al punto), in parte fattori linguistici (non essendo un native speaker, la padronanza della lingua non sarà mai completa). Devo dire comunque che quando ho visto il punteggio che ho ottenuto, sono rimasto sorpreso perché ho scoperto di aver fatto molto meglio di quello che pensassi!

Dopo o durante le interview, ci sarà un breve periodo in cui vi verrà chiesto di mettere in ordine di preferenza i varii programmi CMT disponibili in UK. Questi sono circa 300 (l’elenco per l’ultimo concorso si trova qui), e quindi metterli in ordine di preferenza non è affatto semplice e richiede non poco tempo.

I risultati finali vengono comunicati ai primi di Marzo – riceverete quindi una mail in cui vi verrà detto se siete stati accettati in uno dei programmi che avete inserito nelle vostre preferenze. Nel mio caso, contrariamente alle mie aspettative, ho ottenuto una posizione di CMT in una delle mie prime preferenze. Quando si riceve un’offerta, si ha un periodo limitato di tempo (circa una settimana) per accettarla. Se non si accetta, si perde il posto.

L’Application per il Core Psychiatry Training, in breve

Anche in questo caso, non descriverò il processo nei minimi dettagli. Chi fosse più interessato può trovare un sacco di informazioni sul sito ufficialeIl processo di application per il Core Psychiatry Training è in linea di massima simile a quello per il CMT, con alcune differenze.

L’application viene fatta attraverso il portale Oriel, ma a differenza del CMT, durante l’application non è mi è stato chiesto di fare un application scoring. Non c’è stata dunque la ricerca ossessiva della evidence che ha caratterizzato l’application al CMT. Tuttavia, dato che anche per il Core Psych Training si deve creare un proprio portofolio, il lavoro che ho fatto per costruirmi il Portfolio per la CMT interview mi è stato comunque utile e ho di fatto utilizzato quasi lo stesso portfolio, con minimi cambiamenti.

A differenza del CMT, si deve effettuare un test come parte del processo di application, il Multi-Specialty Recruitment Assessment (MSRA). Questo test è effettuato anche da coloro che vogliono fare l’application per un certo numero di altre specialità (come General Practice). Si tratta di un test che contiene sia domande volte a valutare le conoscenze cliniche, sia “dilemmi professionali”, cioè domande simili a quelle del Situational Judgment Test del Foundation Programme. In generale, non ho trovato il test molto difficile, specialmente per quanto riguarda la parte clinica.

Se si effettua un punteggio sufficiente, si viene invitati all’interview. Anche per l’interview di Psych, viene richiesto un Portfolio, ma rispetto al CMT al candidato è lasciata maggiore libertà per quanto riguarda struttura e contenuti. L’interview è composta da due stazioni di 15 minuti ciascuna. Nella prima station, viene chiesto di presentare il proprio portfolio. In altre parole, avete 15 minuti per parlare liberamente del vostro curriculum e delle vostre esperienze, e dimostrare che siete ottimi candidati per Psichiatria. I commissari valuteranno la vostra presentazione, ma non vi interromperanno. Nella seconda station, c’è un attore che interpreta un paziente, e saranno le vostre capacità comunicative ad essere messe alla prova. Anche qui la durata totale è di 15 minuti – l’interazione con l’attore/paziente avviene durante i primi 10 minuti, mentre 5 minuti sono dedicati ad una discussione sulle interazioni che avete avuto. Nel mio caso, l’attore interpretava un paziente ammesso ad un reparto di ortopedia per una procedura elettiva. Gli esami del sangue avevano mostrato delle alterazioni degli enzimi epatici, il che poneva il sospetto di un abuso di alcool. Il mio compito era quello di comunicare al paziente che la procedura non sarebbe avvenuta (spoiler: non l’ha presa benissimo), e cercare di scoprire se il sospetto di abuso di alcool fosse reale.

Ho trovato l’interview per il Core Psychiatry Training più soddisfacente di quella del Core Medical Training. Ho avuto più controllo sul modo in cui ho presentato il mio curriculum, e mi è sembrato di avere più opportunità di di dimostrare carattere e personalità. Il maggiore tempo a disposizione mi ha anche permesso di approfondire le mie argomentazioni. Anche la seconda parte dell’interview mi è piaciuta di più – invece che parlare di come sono fantastiche le mie communication skills, trovo molto più efficace una dimostrazione pratica con un attore.

Dopo l’interview, il processo è molto simile al CMT. Ad un certo punto vi verrà chiesto di mettere in ordine di preferenza tutti i programmi di training in UK, e intorno a fine Febbrario/primi di Marzo vi verranno comunicati i risultati finali ed il feedback dell’application.  Sono rimasto stupito dallo scoprire che in realtà l’interview di psichiatria è andata peggio di quella del CMT (ho preso un punteggio inferiore) – tuttavia, Psichiatria non è tra le specialità più ambite, e sono comunque riuscito a ottenere il posto nella mia prima scelta.

Mi sono dunque trovato ad un bivio: sia l’interview per il CMT che quella per il CPT erano andate bene, e avevo ottenuto in entrambe un posto che volevo. La scelta tra le due non è stata affatto semplice, perché implicava scegliere tra due percorsi che mi interessavano e attraevano, ma al contempo molto diversi. In particolare, scegliere Psichiatria significava dare una svolta drastica alla mia futura carriera, e lasciarmi dietro la medicina di tipo internistico.

Epilogo: cosa farò dopo il FP

Come ho accennato, il FP è stata un’occasione per scoprire delle cose su di me. Una delle cose che ho scoperto è che parlare con i pazienti è probabilmente la parte del lavoro che preferisco. Arrivare a conoscere i pazienti, e avere il privilegio di essere resi parte della loro vita interiore, è la cosa che mi ha più interessato e dato soddisfazione negli ultimi due anni. Ripensando ai miei 4 mesi in Chirurgia, una delle cose che mi sono piaciute meno è che l’attività del reparto era così frenetica che il tempo che potevo passare con i pazienti era davvero poco. Il mio post in Psichiatria è stata invece una boccata d’aria fresca: finalmente avevo tutto il tempo necessario per i miei pazienti.

Inoltre, mi sono reso conto che una cosa importante per me è non annoiarsi e avere una certa varietà nella pratica clinica. Psichiatria è stata una dei lavori dove mi sono annoiato meno. Ogni paziente è unico, e porta la sua storia e le sue particolarità. Quasi ogni giorno entravo in contatto con qualcosa di estremamente interessante o affascinante, ed il lavoro è effettivamente molto vario, anche se i ritmi sono talvolta lenti.

Durante la mia rotation in Psichiatria, mi sono accorto che non solo il lavoro mi piaceva molto, ma anche che ero piuttosto bravo. Ho ricevuto commenti estremamente positivi da tutti: il mio Consultant, colleghi, infermiere… un po’ tutti mi hanno detto, molto esplicitamente, che ero molto portato per il lavoro, e Psichiatria sarebbe stata un’ottima carriera per me.

Lavorare in Psichiatria ha contribuito anche a sfatare miti e pregiudizi che avevo riguardo alla specialità. Per esempio, che i pazienti psichiatrici siano aggressivi o violenti. Parlando con i miei colleghi, anche quelli più senior che lavorano nella specialità da molti anni, ho scoperto che quasi nessuno è stato aggredito da un paziente. (Nemmeno io, in 4 mesi, sono mai stato aggredito).  Ho anche rivalutato l’idea che lavorare in Psichiatria implichi abbandonare completamente la medicina interna. In realtà si entra in contatto quotidianamente con la medicina, in forme diverse. Per esempio, quando si lavora in un Ospedale psichiatrico, si viene costantemente chiamati per valutare e trattare i problemi di salute dei pazienti, e di fatto si agisce come se si fosse il loro GP, prescrivendo terapie e richiedendo esami come si ritiene opportuno. Quando si ha a che fare con problemi psichiatrici, i problemi medici sono costantemente in diagnosi differenziale, e mi è capitato spesso di richiedere esami (come una TC cranio) allo scopo di fare diagnosi differenziale. Inoltre, ci sono branche della psichiatria che sono molto vicine alla medicina, come per esempio Liaison Psychiatry o Neuropsychiatry.

Lavorando durante il FP mi sono reso conto che i turni di notte sono davvero pesanti per me. Il mio sonno è sempre stato molto precario e capriccioso, e molto sensibile ai cambiamenti di abitudine. I turni di notte si sono rivelati deleteri per me: fatico ad abituarmi e dormo male durante il giorno, e quando i turni di notte finiscono, faccio molta fatica a ritornare al normale ritmo sonno-veglia. Psichiatria è una delle specialità con meno lavoro notturno; in generale, i turni di notte sono tranquilli, e dopo i primi tre anni di core training non si fanno più notti.

Alla fine, dopo averci pensato bene, ho accettato l’offerta del Core Psychiatry Training, e lasciato perdere il Core Medical Training. Si tratta di un percorso che probabilmente non avrei intrapreso se non avessi lavorato in Psichiatria durante il FP, e al momento sono molto contento della mia scelta.

Conclusioni

Con questo, concludo la mia serie di post dedicati al Foundation Programme. Si è appena chiuso un capitolo della mia vita, e, mentre mi appresto ad iniziare una carriera in Psichiatria qui in UK, se ne apre un altro.

Ad maiora! 

 

 

 

La mia esperienza con il Foundation Programme, Parte 2/3

Quasi due anni fa, il 3 agosto 2016, ho cominciato il Foundation Programme, il programma di training post-laurea di 2 anni che tutti i medici in UK devono completare per ottenere l’abilitazione e accedere al training di specialità. Essendo giunto alla fine, ho deciso di scrivere un post con un resoconto della mia esperienza. Questo post è indirizzato soprattutto a studenti di medicina e colleghi interessati alla formazione medica in UK, ma cercherò di spiegare le cose in modo che l’articolo risulti comprensibile anche a chi non è familiare con l’argomento. Per semplicità, ho deciso di suddividere il tutto in 3 grossi post: il prima, il durante, e il dopo.

In generale non ho niente da nascondere, ma preferisco non rendere ovvia la mia identità, per cui rimarrò intenzionalmente vago circa i luoghi nei quali ho fatto il FP. Parlerò delle mie esperienze in generale, con l’idea di fare un bilancio di questi due anni, e cercherò di evitare di riferirmi ad esperienze specifiche.

Link alla parte 1

Parte 2: Durante il Foundation Programme

In questo secondo post parlerò della mia vita e della mia esperienza durante il FP vero e proprio.

La struttura del team

Prima di parlare un po’ di com’è stata la mia vita (lavorativa e non) negli ultimi due anni, penso sia utile parlare delle figure professionali che si incontrano nel tipico reparto ospedaliero in UK. Noto in particolare come nelle discussioni online ci sia spesso confusione riguardo ai ruoli del tipico team ospedaliero in UK. Questa confusione deriva per lo più dal fatto che si tenta di “tradurre” i ruoli del personale medico UK con ruoli equivalenti nel sistema italiano. Per esempio, la figura del Registrar viene talvolta tradotta come Specializzando. Ed è vero, un Registrar è teoricamente un medico Specializzando, ma il ruolo di un Registrar in UK non è affatto equivalente a quello di uno specializzando in Italia, per cui pensare ad un Registrar in questi termini è molto fuorviante. La conclusione a cui sono giunto è che non c’è nessuna corrispondenza diretta tra i ruoli dei medici in UK ed in Italia, per cui la cosa più utile è semplicemente abbandonare l’idea di rapportare queste figure alle figure del reparto italiano, e cercare di descriverle per quello che sono.

Il Consultant è il medico più senior a capo del team. Si tratta del medico che ha la responsabilità finale di tutto quello che succede al paziente, e quello che ha l’ultima parola in merito alle decisioni che vengono prese. In altre parole, il Consultant è il “capo”. Se c’è una decisione difficile da prendere, quello che ha la responsabilità finale è il Consultant. Se proprio si vuole paragonare il Consultant ad una figura italiana, penso che la figura più vicina sia quella del vecchio Primario di reparto. Nei Dipartimenti ci sono diversi Consultant, e ogni Consultant lavora in modo pressoché indipendente. Ogni Consultant ha un certo numero di pazienti di cui è responsabile – a seconda di come è organizzato il dipartimento, questo significa che un reparto ospedaliero può avere pazienti di diversi Consultant, il cui management viene gestito da ciascun Consultant in modo autonomo e indipendente. Significa anche che un Consultant può avere pazienti “sparsi” in diversi reparti. Sì, lo so, suona piuttosto strano per un italiano – per questo dicevo che non ha molto senso paragonare i ruoli UK ai ruoli italiani.

Il Consultant è un medico che ha completato un percorso di training di almeno 8 anni (è quindi un medico specialista). In ambito ospedaliero, ogni altro medico diverso dal Consultant è un medico in una qualche fase del training, con qualche eccezione (es gli Specialty Doctor o  gli Associate Specialist), ma non ne parlerò per non complicare eccessivamente il tutto.

Il Registrar è un po’ il “secondo in comando”, o un “vice-Consultant”. Si tratta di un medico ancora in training (per questo si tratta teoricamente di uno specializzando), ma in pratica è il medico più senior dopo il Consultant. Si diventa Registrar dopo 2 o 3 anni di training specialistico (oltre al Foundation Programme). Il potere decisionale, l’indipendenza e l’autorità di un Registrar sono seconde solo a quelle del Consultant, e quando il Consultant non c’è, è il Registrar a prendere la grande maggioranza delle decisioni, contattando il Consultant solo per decisioni particolarmente complesse o situazioni cliniche di una certa gravità. Per dare un’idea di dove arrivi questo livello di indipendenza, sappiate che in genere nelle branche Chirurgiche è comune per il Registrar operare in completa autonomia come primo chirurgo.

Sotto al Registrar in quanto ad anzianità c’è un gruppo piuttosto eterogeneo di medici in varie fasi del loro training. Un tempo questi medici erano chiamati con il nome collettivo di SHOs (Senior House Officers). L’uso del termine è oggi scoraggiato in quanto, come ho fatto notare, veniva usato per indicare un insieme estremamente eterogeneo di medici, in varie fasi del loro training e con competenze molto differenti, per cui in pratica definirsi come “SHO” diceva poco o niente circa il proprio ruolo. Tuttavia il termine è di utilizzo ancora comune. In pratica gli SHOs sono tutti quei medici post-FY1 che non sono ancora Registrars. In questa categoria sono inclusi gli FY2 ed i medici post-FY2 che sono nei loro primi 2 o 3 anni di un percorso specialistico. Se si volessero rapportare ad una figura italiana, questi medici sarebbero paragonabili agli specializzandi italiani. Il loro livello di competenza, indipendenza e potere decisionale varia a seconda del livello di anzianità e della cultura del reparto in cui si lavora. L’impressione che ho avuto è che questi medici tendano ad essere più indipendenti dei loro equivalenti italiani, ma immagino che dipenda dal reparto.

Infine, all’estremo opposto rispetto al Consultant, c’è l’FY1 (un tempo chiamato House Officer), il medico neolaureato durante il suo primo anno di lavoro. L’FY1 è il medico più junior del team, e dunque quello meno indipendente e meno competente. Può venire istintivo paragonarlo ad un tirocinante italiano, ma in pratica viene considerato parte integrante del team (anziché come un visitatore) ed ha mansioni comparabili a quello di uno specializzando del primo anno. Alla fine del primo anno di lavoro, l’FY1 diventa FY2 ed entra quindi a far parte degli SHO.

Come forse si è intuito, durante il percorso di training che va da medico neolaureato a Consultant, le responsabilità, le competenze ed il livello di indipendenza possono essere considerate disposte come su di un continuum, dove tuttavia sono presenti alcuni stacchi più netti in corrispondenza di certi traguardi. In generale, l’FY1 è il membro meno indipendente del team, e nella maggior parte delle situazioni lavora affiancato ad un SHO, con varii livelli di supervisione possibili. Quando l’FY1 ha bisogno di un consiglio sul management di un paziente, ha bisogno di aiuto, o ritiene che il paziente abbia bisogno di qualcuno più esperto, tipicamente si rivolge all’SHO. L’SHO avrà un suo grado di indipendenza e competenza, e quando si trova ad affrontare una situazione al di fuori della sua portata, si rivolge al Registrar, e così via.

Il tipico team in un reparto UK è composto anche da un gran numero di figure non-mediche. Queste figure sono concepite come parte integrante del team, e in molti reparti partecipano attivamente alle riunioni giornaliere dove si discutono tutti i pazienti. Oltre alle infermiere, aventi un ruolo simile a quello del personale infermieristico in Italia, ci sono anche fisioterapisti, occupational therapists, farmacisti, dietisti, etc.

Il farmacista in particolare è una figura che lavora a stretto contatto con i medici e ha un ruolo molto più importante del farmacista in Italia. Ogni reparto ha un proprio farmacista. Il farmacista controlla periodicamente le prescrizioni dei medici per assicurarsi che le dosi siano corrette e che non ci siano interazioni. Inoltre si occupa di controllare e autorizzare i cambiamenti della terapia quando si fanno le lettere di dimissione, ed è disponibile per consigli circa i farmaci in generale.

Adesso che ho chiarito la natura dei varii ruoli, passerò a descrivere quello che ho ricoperto io – quello del foundation doctor (FY1 e poi FY2).

Tipiche mansioni di un Foundation Doctor

Come ho accennato più su, il ruolo del Foundation Doctor è grosso modo paragonabile a quello che in Italia avrebbe uno specializzando del primo o del secondo anno. La principale differenza è che lo specializzando in Italia tende a lavorare sempre nella stessa specialità (con eccezioni date dai “tronchi comuni”), mentre nel Foundation Programme si cambia specialità ogni 4 o 6 mesi, venendo esposti a una varietà di specialità mediche e chirurgiche, incluse branche specialistiche (come Pediatria o Otorinolaringoiatria) o medicina di famiglia (GP).

Nel corso del mio Foundation Programme, ho lavorato in Chirurgia Generale (General Surgery), Pronto Soccorso (A&E), Pneumologia (Respiratory Medicine), Ostetricia e Ginecologia (Obstetrics & Gynaecology), Psichiatria (Psichiatry) e Geriatria (Care of the Elderly). Ho specificamente scelto questo set di specialità perché volevo lavorare il meno possibile in Chirurgia (Obs & Gynae non è malaccio anche se non ti piace la chirurgia), ed ero interessato ad A&E. Inoltre mi incuriosiva l’idea di lavorare in Psichiatria, una branca che da studente di medicina mi affascinava molto.

Le mansioni da svolgere durante la tipica giornata di lavoro dipendono entro certi limiti dal reparto in cui si lavora, e cambiano quando si passa da FY1 ad FY2. La giornata tipicamente inizia e finisce con l’handover, il momento in cui le responsabilità cliniche passano da un team ad un altro. In Italia questo è noto come passaggio delle consegne. Per esempio, la mattina il team che era di turno durante la notte fa handover al team che sarà di turno durante il resto della giornata, fornendo un resoconto degli eventi verificatisi durante la notte, e indicando se ci sono cose da fare.

In generale, nella stragrande maggioranza dei reparti, la prima parte della mattinata è occupata dal giro visite. In alcuni reparti, già da FY1 si fa il proprio giro visite in autonomia , mentre in altri il giro visite è condotto da un medico più senior (SHO, Registrar o Consultant), ed il ruolo dei medici più junior è quello di accompagnare il medico senior e facilitare il giro visite (es. scrivendo nella cartella clinica, controllando i risultati degli ultimi esami, etc). Uno dei compiti più importanti dell’FY1 è proprio quello di stilare una lista di tutti i tasks che emergono via via. Il giro visite tende a durare un po’ meno nei reparti chirurgici, e un po’ di più nei reparti di medicina, ma in genere finisce tra le 10:30 e le 12:30. Dopo il giro visite, i junior doctors iniziano ad attaccare i “jobs” che sono emersi dal giro visite: lettere di dimissione, richieste di esami (come TC o ecografie), referrals (quando si richiede l’opinione di uno specialista su un paziente), e controllare i risultati degli esami che sono stati richiesti (noto come chasing, lett. “inseguire”).

Se un paziente viene ammesso in reparto, visitarlo è una priorità (to “clerk in”) perché in genere le nuove ammissioni sono anche i pazienti meno stabili. Ovviamente una grossa parte del lavoro consiste anche risolvere i problemi (clinici e non) che emergono via via durante il giorno. Alcuni problemi sono banali (es. prescrivere fluidi o farmaci, inserire cannule, fare esami del sangue), mentre altri possono essere complicati e molto stressanti, specialmente se nel reparto si è soli ed i medici più senior sono occupati altrove. Per esempio, un paziente può divenire instabile o sviluppare una complicanza: si verrà allertati dalle infermiere perché un paziente ha dolore toracico, ha la febbre, oppure perché la saturazione dell’ossigeno è divenuta pericolosamente bassa. Si dovrà andare a visitare il paziente, cercare di capire come mai è deteriorato (es richiedendo esami), e probabilmente avviare una terapia. Una cosa pressoché ubiquitaria in UK è l’uso del NEWS score, di cui parlerò più in dettaglio più avanti. Ad ogni modo, una delle più frequenti ragioni per cui le infermiere possono contattare il medico è perché il punteggio di NEWS di un paziente è deteriorato.

Anche problemi non strettamente clinici fanno parte del lavoro  – magari i familiari del paziente che il Consultant aveva programmato di mandare a casa sono assolutamente contrari con la dimissione e richiedono di parlare con un medico. In alcuni reparti, come Geriatria, una grossa parte della mia attività giornaliera consisteva nel parlare con i familiari dei pazienti – vuoi per un semplice update, vuoi per rispondere a concerns o suggerimenti.

Infine, occasionalmente ci sono altre cose interessanti da fare. Per esempio, è comune che ci siano studenti in reparto – qui in UK, insegnare agli studenti è considerato un dovere di tutti, nonché una delle skills essenziali da sviluppare nel corso del Foundation Programme. In genere, al reparto viene comunicato in qualche modo che ci saranno studenti in reparto (email a tutto lo staff, fogli appesi con tanto di foto, etc), così che tutti sappiano chi sono e cosa devono fare. In genere i medici sono ben contenti di portare gli studenti con loro e coinvolgerli nelle loro attività, ed è comune che facciano un po’ di shadowing con gli FY1 o FY2.

Ovviamente questa routine cambia (anche molto) a seconda del dipartimento in cui si lavora. Per esempio, se si lavora in A&E (Accidents & Emergencies, l’equivalente del Pronto Soccorso) o in una Acute Medical Assessment Unit, grossa parte del lavoro consisterà nel visitare pazienti con patologie acute, stabilizzandoli.

Responsabilità e indipendenza crescenti

Come accennavo più su, le mansioni di un FY2 non sono drasticamente diverse da quelle di un FY1, ma si tende ad avere più indipendenza e più responsabilità. Se durante l’FY1 si è più o meno strettamente supervisionati dai propri seniors, durante l’FY2 il livello di supervisione si allenta. Se un FY1 ha visitato un paziente che sta male, magari avremo l’SHO che andrà a visitarlo a sua volta (o almeno a dargli un’occhiata) per assicurarsi che tutto vada bene; durante l’FY2 i tuoi seniors tenderanno a “fidarsi” di più e lasciarti fare, a meno che tu non richieda specificamente il loro aiuto. Certamente si ha l’impressione che la propria capacità di gestire varie situazioni cliniche aumenti, così come la sicurezza di sé. Senza rendermene conto, sono passato dall’essere insicuro su qualunque decisione che non fosse prescrivere paracetamolo, all’essere piuttosto a mio agio nel gestire autonomamente pazienti piuttosto malati. Ovviamente anche le responsabilità aumentano – quando si è FY2, si è un SHO. Se si lavora con un FY1, adesso è nostra responsabilità assicurarsi che l’FY1 sia safe.

Rispetto all’Italia, in UK ci sono certamente diversi aspetti del lavoro del medico che risultano diversi o peculiari – cercherò di parlare degli aspetti salienti.

Niente camice bianco!

Una degli elementi che mi sono risultati più alieni quando ho iniziato a lavorare in UK è stato (ed è ancora, a essere sincero) l’assenza del camice bianco. Già, il camice qui non esiste. Il camice è stato praticamente abolito in UK nel 2007 perché c’era il timore che potesse favorire il propagarsi delle infezioni (ma non sarebbe stato sufficiente imporne il lavaggio giornaliero?). Alcuni ospedali forniscono uniformi ai medici, ma in molti altri ospedali i medici sono vestiti con i propri abiti. C’è comunque un dress code da seguire, per cui non puoi venire a lavoro in jeans e maglietta degli Slayer. Il dress code è basato in parte su esigenze igieniche e di prevenzione delle infezioni, in parte su esigenze “estetiche” volte a dare l’impressione che il medico sia vestito in modo serio e professionale. I medici devono essere vestiti “smart”; niente cravatte o altre cose “penzolanti” (come i lanyards – tecnicamente sarebbe incluso anche il fonendoscopio, che non dovrebbe essere portato intorno al collo); i capelli, se lunghi, devono essere portati raccolti. Una delle regole più rigorose è essere “bare below the elbow” (niente maniche lunghe, orologi, bracciali, etc); una delle eccezioni permesse è un singolo anello semplice, come una fede. In pratica, come si veste il medico medio? Pantaloni eleganti e camicia con maniche arrotolate sopra il gomito. Per le donne c’è una certa variabilità, ma il vestito non è mai troppo informale.

La cosa continua a perplimermi dopo due anni che sono qui.

Lo stile delle cartelle cliniche e della documentazione

Un’altra cosa che mi ha stupito molto quando sono venuto qui è lo stile delle cartelle cliniche. In Italia, le cartelle cliniche tendono a essere molto formali. Per esempio, l’esame obiettivo viene in genere documentato utilizzando terminologia ed espressioni specifiche. Sono rimasto molto stupito nello scoprire che in UK le cartelle cliniche sono invece piuttosto informali.

Ecco, a titolo di esempio, una tipica pagina di cartella clinica:

Come si vede, è consuetudine riassumere l’esame obiettivo con disegni schematici. L’auscultazione del torace, per esempio, si riassume in un disegno di due triangoli, a rappresentare i due polmoni, accompagnato da un breve commento – se non ci sono reperti particolari, si disegna una freccia (per qualche motivo che mi sfugge, il disegno della freccia vuol dire “normale”). L’esame obiettivo dell’addome? un esagono o un ottagono, di nuovo con qualche breve commento. I reperti patologici si riportano sul disegno, sempre in forma schematica. Si può disegnare praticamente di tutto. Anche il linguaggio utilizzato spesso è relativamente informale. Per esempio, è abbastanza normale scrivere commenti in prima persona (“I think that…”), cosa che in Italia sarebbe malvista. Ma se ci si pensa bene… che c’è di male?

Nonostante questa apparente mancanza di linguaggio tecnico,  in UK ci tengono alle clinical notes, e le indicazioni per produrre note cliniche di qualità abbondano. Una delle cose che ho apprezzato di più è la struttura delle note cliniche, in cui la praticità e la sostanza hanno la priorità sulla forma. Per esempio, si viene incoraggiati a includere una “problem list” come parte delle proprie entries, e a indicare sempre almeno una working diagnosis. Cos’è una problem list? Come dice il nome, si tratta di una lista dei problemi del paziente, in senso lato. Può essere una cosa tipo:

  1. Right lower lobe pneumonia – on IV antibiotics
  2. Still requiring oxygen
  3. Hyponatraemia – under investigation
  4. Poor mobility
  5. Lives alone, poor social support

Queste problem list sono in effetti molto pratiche, perché ti forniscono una lista concisa dei problemi che si devono risolvere, e ti aiuta a rispondere velocemente alla domanda “cosa devo fare per questo paziente davanti a me?”. Un’altra cosa che mi piace molto è che si viene incoraggiati a terminare le proprie entries con un “Plan”. In questo modo, l’autore della entry è incoraggiato a chiedersi “qual è il mio piano? Che devo fare per questo paziente?”, e chi viene dopo capisce subito quali sono le prossime azioni da intraprendere. Per esempio, prendendo spunto dalla Problem List di cui sopra:

Plan:

  1. Switch to oral when CRP <200
  2. Chest physiotherapy, wean off O2 as able
  3. Chase plasma osmolality
  4. Physio/OT assessment

Ovviamente, ci sono poi tutta una serie di abbreviazioni (più o meno facilmente comprensibili) che vengono usate di continuo. Si vai dai classici acronimi (AF=Atrial Fibrillation, IHD = Ischaemic Heart Disease) ad abbreviazioni meno ovvie (#NOF = fracture of Neck of Femur). Ci sono abbreviazioni a cui proprio non riesco ad abituarmi, e che dopo due anni ancora non mi vengono naturali – per esempio l’abitudine a indicare i periodi di tempo come frazioni. Esempi: 5/7 = 5 giorni; 4-6/52 = 4-6 settimane; 3/12 = 3 mesi.

Devo dire che ho adottato rapidamente questo stile di scrivere nelle cartelle cliniche (a parte le abbreviazioni), e mi è sembrato subito una ventata d’aria fresca.

Procedure pratiche

In Italia, il personale infermieristico tende ad occuparsi delle maggior parte delle piccole procedure pratiche di routine (come prelievi, inserimento di agocannule, emogas, ECG, inserimento di cateteri e sondini nasogastrici). In UK, le infermiere in genere sanno inserire cateteri, sondini nasogastrici, e somministrare farmaci endovena, ma non sono necessariamente in grado di effettuare prelievi, inserire agocannule, fare emogas e fare ECG, per cui questi compiti tendono a ricadere sui junior doctors. Anche quando le infermiere hanno questo tipo di competenze, spesso finiscono per chiedere all’FY1 perché hanno molto da fare.  Molto dipende dalla cultura lavorativa del reparto o dell’ospedale – in alcuni casi prelievi e agocannule sono viste come una responsabilità condivisa, per cui le infermiere sono tendenzialmente disposte a farsi carico di queste procedure, e contattare il medico solo quando non riescono; in altri reparti, viene considerata come una responsabilità pressoché esclusiva dell’FY1. Sia come sia, una buona parte dei compiti da svolgere durante il proprio turno possono essere costituiti da queste piccole procedure pratiche (“Mr Smith’s cannula has tissued!”).

Ci sono inoltre alcuni farmaci che le infermiere non possono somministrare endovena, come la morfina – se prescrivi della morfina endovena, la devi anche somministrare tu stesso al paziente. 

In molti ospedali ci sono dei phlebotomists (venesettori?) il cui lavoro consiste nel fare il giro dei reparti la mattina e fare gli esami del sangue ai pazienti (sempre che vi siate ricordati di richiederli il giorno prima!). Ci possono anche essere degli ECG technician, il cui lavoro consiste nel fare ECG su richiesta. Quando presenti, queste figure semplificano notevolmente la vita, ma non sono sempre presenti in tutti gli ospedali o in tutti i dipartimenti.

Devo dire che inizialmente ero infastidito dalla necessità di farmi carico di procedure come prelievi e agocannule. All’università mi avevano insegnato come fare queste cose, ma era una competenza che avevo più sulla carta che nella pratica – mi era stato insegnato ad inserire agocannule con la prospettiva che fosse un compito che avrebbe per lo più svolto qualcun altro. In altre parole: non lo sapevo fare e non ero bravo. Adesso che ho acquisito più manualità, sono contento di saperlo fare, ed effettivamente penso sia una competenza basilare che ogni medico dovrebbe avere. Quando un paziente sta male, saper guadagnare rapidamente l’accesso venoso è una skill molto importante.

Il Bleep

In tutte le statistiche ufficiali consultabili online, viene sistematicamente mostrato come l’UK abbia un numero di medici per abitante inferiore rispetto all’Italia. Questa è una impressione che si ha anche soggettivamente, quando si lavora qui – si nota facilmente come ci siano meno medici in giro in rapporto ai pazienti, e out of hours (es di notte) questa impressione è ancora più netta.

Ovviamente, il sistema si è evoluto per ottimizzare le risorse, il che implica anche spremere il più possibile i medici disponibili. Ecco spiegata la ragione dell’esistenza del cercapersone (o pager, o bleep). In ogni lavoro che ho fatto, ho avuto con me un cercapersone; virtualmente ogni medico che lavora in ospedale ne ha uno. In Italia il cercapersone è un ordigno sconosciuto – che cos’è in pratica questo famoso bleep?

Nella maggior parte dei casi, si tratta di una piccola scatolina nera con un display a cristalli liquidi. A ogni bleep è collegato un numero, di solito a 3 o 4 cifre. Ogni ospedale ha il proprio paging system, ma il funzionamento è più o meno sempre lo stesso. Diciamo che il tuo numero di bleep è #1234. Se qualcuno vuole contattarti, alza la cornetta, in qualche modo digita il tuo numero, e poi digita il numero al quale vuole essere richiamato (es. 5678). Quindi mette giù, e aspetta che tu lo richiami. A questo punto, il tuo bleep (1234) inizierà ad emettere un tono fastidioso (“bleep – bleep – bleep”) e sul display comparirà il numero 5678. Se puoi, interromperai quello che stai facendo e andrai a cercare un telefono per chiamare 5678 e sentire chi ti vuole. Se c’è un’emergenza o un arresto cardiaco, scatta un tono speciale e il bleep si mette addirittura a parlare, diffondendo un messaggio vocale che ti informa dell’emergenza (“Cardiac arrest, ward 6. Cardiac arrest, ward 6”).

In genere, c’è un bleep separato per l’FY1, un bleep per l’SHO e un bleep per il Registrar e/o il Consultant on call. Portare il bleep dell’FY1 on call non è bello. In genere, le infermiere tendono a blippare l’FY1 per (quasi) ogni cosa, dalla prescrizione del paracetamolo per un paziente con il mal di testa, alla stesura delle lettere di dimissioni, all’inserimento di una cannula, alla review urgente di un paziente che sta male. Nei peggiori shifts che ho avuto, mi sono trovato con un bleep che ha suonato costantemente, ogni 20 minuti, per 8-12 ore di fila. Immaginatevi cosa significhi cercare di completare una qualsiasi mansione se ogni 20 minuti vi dovete interrompere per rispondere a un bleep. Per fortuna non è sempre così! Non rispondere in maniera tempestiva al proprio bleep è considerata una cattiva prassi, fatta eccezione per situazioni oggettivamente urgenti.

Il cercapersone fa molto anni ’80, e si tratta senz’altro di una tecnologia vecchia. Tuttavia è un sistema economico per far sì che i medici siano facilmente reperibili. Questo ottimizza i tempi e consente ai medici di “coprire” più reparti contemporaneamente. Se le infermiere vogliono parlare con un medico, a qualunque ora del giorno o della notte, possono semplicemente blippare il medico on call.

Le linee guida

In UK tutti amano le linee guida. Ci sono istituti come il NICE (National Institute for Health and Care Excellence) o il SIGN (Scottish Intercollegiate Guidelines Network) che emanano linee guida evidence-based valide a livello nazionale. Oltre a queste linee guida “generiche”, generalmente ogni NHS Trust (ogni regione) ha un suo set di linee guida per problematiche cliniche comuni. Per esempio, sono molto comuni le linee guida che indicano la terapia antibiotica empirica più adatta a seconda dell’origine dell’infezione o di altre caratteristiche del paziente; oppure per la gestione delle alterazioni elettrolitiche. A queste linee guida “ufficiali” della Trust, spesso si aggiungono linee guida specifiche del Dipartimento o del reparto in cui si lavora. Per esempio, il reparto di Respiratory Medicine in cui ho lavorato era un centro di riferimento regionale per la fibrosi cistica, e aveva linee guida specifiche riguardanti l’uso di antibiotici particolari (es. Tobramicina) in questi pazienti. Altre volte, ci sono semplicemente prassi o abitudini non scritte tipiche di un certo dipartimento che vengono seguite in modo informale.

Una cosa che ho sentito ripetere più volte è che l’aderenza alle linee guida in UK è apparentemente strettissima – guai a deviare anche minimamente dai protocolli! In realtà io tutta questa rigidità non l’ho mai esperita. È vero che c’è l’aspettativa che le linee guida vengano seguite nella gran parte dei casi (ma questo mi sembra scontato, sennò che ci sono a fare?); è vero che lo staff (soprattutto infermieristico) sembra trovare rassicurante il fatto che si seguano i protocolli e le linee guida; ed è vero anche che quando questo non viene fatto ti vengono chieste spiegazioni. Tuttavia, quando ho fornito un motivo valido per deviare dal protocollo, le mie spiegazioni sono sempre state accettate. Ho visto Registrar e Consultant deviare un sacco di volte dai protocolli, e quando c’era un motivo chiaro nessuno ha mai detto niente.

In generale, la mia opinione di queste linee guida è positiva. Se fatte bene, sono molto utili quando non si è sicuri di quale sia il modo migliore di gestire una problematica clinica, o quando si è indecisi tra più farmaci e si vuole rapidamente trovare qual è quello considerato di prima linea. Ci sono sicuramente delle aree (es l’uso degli antibiotici) in cui avere delle linee guida ha molto senso. Per esempio, in Italia, dove la situazione è più anarchica, ho visto reparti dove si prescriveva piperacillina/tazobactam un po’ a chiunque perché il Primario decideva così, quando invece dovrebbe essere quasi sempre un antibiotico di seconda o terza linea.

NEWS Charts & NEWS Score

Come accennavo prima, le NEWS chart sono in uso in tutti gli ospedali in UK. Le infermiere periodicamente prendono i parametri vitali dei pazienti (frequenza cardiaca e respiratoria, saturazione dell’ossigeno, temperatura, pressione arteriosa, livello di coscienza) e li registrano in un grafico. A seconda di quanto i parametri vitali si allontanino da un range considerato normale, viene calcolato un punteggio totalenoto come NEWS score. Il NEWS score è uno strumento validato e in uso in diversi paesi.

Più è alto il NEWS score, più il paziente sta male. Un paziente senza grossi problemi generalmente ha un NEWS score tra 0 e 2 (per esempio, alcune persone hanno fisiologicamente valori di pressione arteriosa sistolica piuttosto bassi – per quelle persone sono valori normali, ma “valgono” un punto di NEWS). Un valore superiore a 6-8 in genere denota un paziente che sta male, e un valore superiore a 10 indica un paziente che probabilmente sta molto male (del tipo, smetti di fare qualunque cosa tu stia facendo e vallo a visitare).

Ogni ospedale ha un suo protocollo che detta quale dovrebbe essere la risposta ad ogni punteggio; es. Arrivati ad un certo punteggio, la risposta può consistere nell’aumentare la frequenza con cui i parametri vengono registrati e/o informare un medico (un esempio a pag 4 di questo PDF).

Devo dire che l’uso delle NEWS charts è una delle cose che mi piacciono di più degli ospedali UK, ed è una cosa che mi piacerebbe fosse importata in Italia. Si tratta di uno strumento utile perché rende i trend molto evidenti, ed effettivamente ti permette di capire “a colpo d’occhio” quando le condizioni di un paziente stanno deteriorando. Ad ogni modo, una delle più frequenti ragioni per cui le infermiere ti contattano è perché il punteggio di NEWS di un paziente è deteriorato. Cosa fare di questa informazione spetta a te (le infermiere, una volta che te l’hanno detto, scriveranno in cartella clinica che il Dr Tal dei Tali è “aware”). In genere, se il punteggio cambia di 1-2 punti non mi preoccupo particolarmente, perché spesso questo accade per normali variazioni fisiologiche dei parametri. Tuttavia, se il punteggio di NEWS cambia in modo marcato (es. da 0 a 4) probabilmente c’è qualcosa che non va. Comunque sia, se un’infermiera è preoccupata in genere te lo dice chiaramente.

Do Not Resuscitate

“Do Not Resuscitate” si riferisce alla decisione di non effettuare rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto cardiaco. Si tratta di una decisione che può essere presa dal team medico che ha in terapia un paziente, ed in UK è piuttosto comune. Si capisce meglio con un esempio.

Diciamo che Mr Smith viene ammesso in Ospedale con una polmonite. Diciamo che Mr Smith ha 84 anni ed ha un tumore al polmone inoperabile; Mr Smith probabilmente è anche un forte fumatore, quindi magari ha altri problemi oltre al tumore al polmone – magari ha una forma grave di BPCO, magari ha avuto uno o due infarti, magari ha una demenza vascolare ed è in generale poco indipendente. Diciamo che si è deciso che non è il caso di fare chemioterapia, quindi il suo management è sostanzialmente di controllo dei sintomi. Già da questa breve presentazione si capisce che Mr Smith non sta proprio benissimo. Ora, sappiamo che tutti prima o poi dobbiamo morire, e questo è un qualcosa che la medicina non può evitare: non c’è cura per la morte. Essere morti significa che il cuore si ferma e si smette di respirare: questo in termini tecnici si chiama arresto cardiorespiratorio. Tecnicamente, per l’arresto cardiorespiratorio c’è una possibile terapia e si chiama Rianimazione Cardiopolmonare, o CPR (faccio notare che non è un caso che si chiami Resuscitation, o Rianimazione: durante un arresto, il paziente è all’atto pratico morto, e quello che si tenta di fare è letteralmente di resuscitarlo). La Rianimazione, in generale, non funziona tanto bene. Le statistiche che abbiamo ci dicono che a seguito di un arresto in Ospedale, meno del 20% dei pazienti sopravvive alle dimissioni dall’Ospedale. A fronte di questa scarsa efficacia, la rianimazione è un trattamento brutale (coste rotte, poco dignitoso, etc), e una parte di coloro che sopravvivono riporta danni neurologici più o meno gravi, con conseguente diminuzione dell’autonomia e dell’indipendenza.

Generalmente la CPR funziona quando l’arresto cardiaco è determinato da una causa rapidamente reversibile (es una alterazione elettrolitica o un’aritmia), ma quando l’arresto cardiaco si verifica perché hai 84 anni e un sacco di problemi non reversibili, un arresto cardiaco è semplicemente la morte. Quindi, in queste circostanze, provare a rianimare un povero vecchio di 84 anni diventa futile, dannoso e poco dignitoso. Per questo, quando si ritiene che la CPR abbia scarse probabilità di successo a causa di comorbidità del paziente, il team medico può prendere la decisione di non resuscitare il paziente in caso di arresto cardiaco. In pratica, si prende atto del fatto che se il cuore del paziente si ferma, è perché è morto, e la cosa più dignitosa è permettere una morte naturale invece di tentare terapie eroiche che hanno scarsissime probabilità di successo. In alcuni casi, è il paziente stesso che può dire che non vuole essere rianimato in caso di arresto cardiaco. Comunque si giunga a decidere che il paziente non è per resuscitation, la decisione viene spesso formalizzata riempiendo un form speciale (esempio) che va nella cartella clinica del paziente. Quando il paziente viene dimesso dall’ospedale, il form lo segue a casa. In questo modo, il personale sanitario che non conosce il paziente sa subito che in caso di arresto cardiaco, è stata presa la decisione di non resuscitare.

Si tratta di una prassi che, a quanto mi risulta, in Italia è sconosciuta. Certamente quando ero uno studente nessuno ha mai affrontato l’argomento durante il corso di Medicina, e non ricordo che nei reparti che ho frequentato si sia mai discusso direttamente con i pazienti se fosse il caso di resuscitarli o meno. Non credo di aver mai assistito ad una discussione del genere nemmeno tra medici. E quindi? Sarò completamente onesto: non ho idea di come funzioni ‘sta cosa in Italia. Suppongo che qualcosa del genere ci debba essere anche da noi, perché non credo che ci si metta a rianimare un vecchietto di 96 anni con demenza che sta chiaramente morendo, per cui posso solo supporre che queste decisioni siano implicite. Se davvero fosse così, non riesco a capire come la cosa non abbia serie ramificazioni dal punto di vista etico e medicolegale. Per esempio, se una infermiera trova un paziente incosciente, che non respira e non ha polso, non è legalmente obbligata a iniziare la CPR se nessuno ha attivamente preso la decisione di non resuscitare? Ma se la decisione non viene presa in maniera esplicita, chi la prende? Chi è responsabile per la decisione?

Ad ogni modo, le decisioni DNR sono comuni in UK. Queste decisioni devono essere discusse con il paziente (o con un familiare es. se il paziente è affetto da demenza), tranne in rarissime eccezioni. In molti reparti queste discussioni sono appannaggio di medici senior come Consultant o Registrar, ma a seconda della cultura lavorativa locale, anche un SHO può discutere una decisione DNACPR. Durante l’FY2 mi è capitato 4-5 volte di condurre queste discussioni (in un caso di mia iniziativa dal momento che lo ritenevo appropriato). Le reazioni dei pazienti e dei familiari sono varie: la maggior parte dei pazienti sembra accettare la decisione con filosofia, e alcuni pazienti sono completamente d’accordo e dicono esplicitamente di non volere la CPR. I pazienti (o i loro familiari) che non accettano queste decisioni sono una netta minoranza. Cosa succede se il paziente non è d’accordo? Teoricamente, l’ultima parola ce l’ha il Consultant. Un paziente non può esigere un trattamento che il Consultant non ritiene appropriato. In pratica, nella mia esperienza, quando c’è un disaccordo, molto spesso la decisione viene rimessa in discussione.

Gli orari e le notti

Gli orari variano molto da reparto a reparto. Il mio orario medio, in questi due anni, è stato costituito da giorni di 8 ore alternati a giorni di 12 ore (es Lunedì, Mercoledì e Venerdì 8h/Martedì e Giovedì 12h oppure Lunedì Mercoledì e Venerdì 12h/Martedì e Giovedì 8h). In media ho lavorato 1 weekend ogni 3 settimane; in genere, lavorare il weekend significa fare tre turni di 12 ore (Venerdì-Sabato-Domenica) di fila. Quando fai il weekend, generalmente il Lunedì sei off. Il numero di notti è stato estremamente variabile – il minimo è stato 7 notti in 4 mesi, il massimo 21 notti in 4 mesi.

Una cosa particolare degli orari UK è che le notti non sono mai singole. In genere le notti si fanno in serie di 3 o 4 notti. Esatto, di fila. Generalmente si fa Lunedì notte-Giovedì notte (4 notti), o Venerdì notte-Domenica notte (3 notti). A seconda del reparto, prima delle notti puoi non avere nessun giorno libero (cioè, lavori con il turno di giorno, e il giorno dopo sei di notte – non mi è mai capitato personalmente, ma so che può succedere), oppure 1-2 giorni liberi. Dopo la notte hai in genere un paio di giorni off (compreso quello in cui smonti dalla notte), talvolta di più. Ventuno notti in 4 mesi possono non sembrare molte, ma lo sono! Essere di notte vuol dire non avere tempo di fare niente eccetto lavorare e dormire – e dato che si dorme di giorno, i contatti con il resto della società civilizzata si riducono notevolmente. Ventuno notti significa avere una serie di notti ogni 2 settimane circa. Il che significa “perdere” una settimana intera di vita se si è di turno dal Lunedì sera al Venerdì mattina, o un fine settimana se si è turno dal Venerdì sera al lunedì mattina. Inoltre, io lo trovo parecchio stancante mentalmente e fisicamente.

Le notti di solito non sono belle. In medicina e in chirurgia, in media erano orrende. Se è vero che il singolo reparto magari non genera tanto lavoro, durante le notti spesso si coprono diversi reparti (es 3 o 4, talvolta di più). Questo in pratica si traduce in un flusso ininterrotto di jobs e bleep, che, essendo di notte, tendono a riguardare questioni abbastanza urgenti: pazienti che hanno la febbre, pazienti che stanno male con NEWS elevata, cannule, fluidi, prescrizioni, etc. A complicare il tutto, c’è il fatto che, dal momento che di notte si coprono reparti multipli, le richieste di intervento possono riguardare pazienti o discipline con cui non sei molto familiare. Per esempio, quando lavoravo in medicina, di notte coprivo anche pazienti di Cardiology, Renal, General Medicine, Infectious Diseases, Oncology, ed Haematology. In alcuni reparti tuttavia le notti sono più tranquille, e magari si riesce a riposare per un paio d’ore. Le notti in O&G e Psichiatria per esempio erano così. Personalmente, odio le notti con tutto me stesso perché non riesco a dormire bene di giorno – per cui una notte la sopporto tutto sommato bene, ma arrivato alla terza sono completamente esausto, mentalmente e fisicamente.

In linea di massima, l’orario peggiore che ho avuto è stato in Chirurgia generale perché eravamo short-staffed, quindi dovevamo lavorare per coprire i turni per i quali non c’era nessuno. L’orario migliore è stato in Psichiatria, in cui lavoravo per lo più dalle 9 alle 17, con qualche turno lungo e qualche notte e weekend ogni tanto.

L’ePorfolio

L’ePortfolio è difficile da descrivere. Si tratta, in pratica, di un raccoglitore virtuale delle proprie esperienze professionali. L’ePortfolio è il luogo virtuale in cui dovrete catalogare i vostri progressi nel corso del training, e dimostrare che avete raggiunto gli obiettivi formativi del training. Fa anche da organizer, per cui è possibile registrare sul portfolio gli incontri con il proprio supervisore.

In pratica, ci sono una serie di criteri da soddisfare per poter avanzare da FY1 a FY2, e per poter completare il Foundation Programme alla fine di FY2. Per esempio, si deve dimostrare di saper effettuare 15 Core Procedures (per esempio, bisogna saper effettuare un’iniezione intramuscolare e sottocutanea, saper iniettare un anestetico locale, saper effettuare delle emocolture, saper effettuare esami del sangue, saper inserire una cannula, saper fare un emogas, saper eseguire e interpretare un ECG etc). Bisogna inoltre dimostrare competenza in 20 Capacità Professionali base, specificate nel Syllabus del FP. Queste 20 Foundation Professional Capabilities sono raggruppate in 4 aree: Comportamento professionale e fiducia; Comunicazione, team working e leadership; Capacità cliniche; Sicurezza e qualità.

Per dimostrare di aver raggiunto questi obiettivi, si devono ottenere delle evidence, e “collegarle” agli elementi di cui sopra. Questo sembra molto fumoso, per cui merita fare un esempio pratico. Per le Core Procedures, il processo è piuttosto intuitivo. Come dimostro di saper fare un emogas? Chiedo a qualcuno che sappia effettuare la procedura (es un altro medico) di osservarmi mentre ne faccio uno. Se ho successo, gli manderò una richiesta via email (ticket) e lui potrà confermare sul mio portfolio che so effettuare un emogas. Fatto.

Per le Capacità Professionali di base, la cosa è più complessa, perché vengono richieste almeno 3 differenti “evidence” per ognuna. La buona notizia è che quasi qualunque cosa può costituire evidence. Per esempio, se si completa un modulo eLearning es. Sulla prescrizione degli antiemetici, e viene rilasciato un certificato, si può caricare sul proprio ePorfolio e usarlo come evidence.

Ci sono due attività che qui ritengono molto importanti, e che costituiscono le principali fonti di evidence. Le Reflections, ed i Supervised Learning Events (SLE).

Io di reflective practice non avevo mai sentito parlare in 6 anni di medicina, ma è una cosa che esiste da anni e che viene applicata in un gran numero di contesti. In pratica, si tratta di scrivere in modo introspettivo a proposito di esperienze che si sono avute in ambito lavorativo o accademico con lo scopo di esaminare criticamente ciò che si è fatto, come lo si è fatto, e capire come mai si è agito in quel modo, e se si sarebbe potuto migliorare. Per esempio, magari ho dovuto affrontare una discussione difficile con un familiare di un paziente – posso farci una self reflection, ed esaminare come mi sono sentito, quali fattori hanno reso la situazione stressante, quali fattori hanno determinato il modo in cui ho reagito, e se ho imparato qualcosa. Si può fare una self reflection praticamente su qualunque cosa. All’inizio mi pareva una cosa un po’ futile, ma adesso ne riconosco l’utilità e effettivamente ne capisco il senso.

I Supervised Learning Events (SLE) sono attività che, come indica il nome, si svolgono con un supervisore. L’elemento chiave di queste attività è che si ottiene un feedback formale sulla propria performance. Nella maggior parte dei casi il supervisore sarà un medico più senior (Registrar o Consultant). Ci sono 4 principali SLEs: Case-Based Discussions, Mini-Cex, Developing the Clinical Teacher, e i DOPS. Due di queste attività (Mini-Cex e DOPS) sono particolarmente importanti perché vieni osservato mentre interagisci con un paziente o mentre stai effettuando una procedura pratica. Non starò a spiegare nei dettagli in cosa consistono queste attività – basti sapere che è obbligatorio fare almeno una SLE per blocco, e che ci si aspetta che il trainee le faccia un po’ tutte durante l’anno. Una volta che si è ottenuto un buon numero di queste attività, è possibile utilizzarle come evidence per dimostrare di aver raggiunto gli obiettivi di cui sopra.

Il Portfolio è anche il luogo virtuale dove vengono gestiti i multi-source feedback. In pratica, duranti i tuoi diversi placement, ti viene richiesto di ottenere il feedback formale dei tuoi colleghi. I tuoi colleghi ricevono un link sulla loro email, che li porta ad una sorta di questionario online. In genere vieni valutato sulle tue capacità “umane”, come per esempio: se sei bravo a lavorare in un team, se sei un tipo affidabile, se sei educato, se sei puntuale, se sei bravo a comunicare con i pazienti etc. Il feedback è anonimo (non puoi vedere chi ha scritto cosa), e ti viene chiesto di avere un buon mix di figure professionali – devi includere Consultant, colleghi più senior di te, infermiere, e personale non-infermieristico (es fisioterapisti). Nella mia esperienza le persone tendono a essere piuttosto oneste, per cui se sei un cafone sul lavoro questa cosa verrà segnalata al tuo supervisore.

Tutte queste caselle da spuntare sono valutate da una commissione alla fine dell’anno. È il famigerato ARCP, Annual Review of Competence Progression. In genere si svolge a metà Giugno. Quello che succede è che c’è una commissione che esaminerà il tuo porfolio e la evidence che hai collezionato per assicurarsi che tu stia progredendo come dovresti. Se l’evidence che hai non è considerata sufficiente, hai un tot di tempo per presentare evidence addizionale. Se non riesci a presentare evidence addizionale, o l’evidence viene ritenuta comunque insufficiente, vengono presi provvedimenti (es. viene organizzato del training addizionale come FY1 prima che tu possa progredire a FY2).

Il Porfolio è un po’ una fonte di stress e ansia, più che altro perché ci sono un sacco di cose da fare e evidence da accumulare. Se riesci ad occupartene via via durante l’anno (1-2 ore alla settimana), non è niente di che; la maggior parte della gente però sembra sbattersene per mesi, salvo ricordarsi che esiste a due settimane dall’ARCP. Tutti quelli che sono passati dall’FY1 ti dicono di evitare di fare così, e di occuparti del porfolio via via, ma puntualmente tutti fanno esattamente il contrario. È stato così anche per me, e alla fine dell’FY1, mi sono trovato a due mesi dall’ARCP con 4-5 core procedures ancora da completare e diverse “lacune” nelle Professional Capabilities, per cui sono stato per circa due mesi a scrivere self reflections come se ne andasse dalla mia vita, e a fare moduli di eLearning in ogni momento libero della giornata. I moduli eLearning del BMJ sono stati una manna dal cielo. Tuttavia, ho imparato la lezione, e durante il mio FY2 ho cercato di occuparmi del portfolio con regolarità, per cui alla fine dell’anno era tutto in regola e avevo tutto quello che mi serviva senza corse disperate contro il tempo. Effettivamente è filato tutto molto più liscio.

Il Teaching

La Deanery che organizza il programma locale del Foundation Programme organizza anche sessioni regolari di teaching. A quanto ho capito, non c’è un programma specifico di cosa debba essere trattato durante queste sessioni, purché gli argomenti trattati coprano tutte le 20 Professional Capabilities. Gli argomenti quindi possono essere clinici (es. il management delle alterazioni elettrolitiche, la gestione della terapia insulinica nel diabete) o meno (es. decisioni di fine vita, la mental capacity, etica…). Queste sessioni di teaching sono obbligatorie, e (almeno in teoria) sono protected, il che significa che non dovresti avere un bleep con te e non dovresti poter essere contattabile/disturbabile. Come Foundation Doctor, devi partecipare almeno all’75-80% (mi pare) delle sessioni – questo è un requisito per completare con successo il Foundation. Alcune Deaneries organizzano sessioni settimanali di Teaching della durata di 1-3 ore, mentre altre riservano un giorno al mese in cui sei dispensato dal lavoro (salvo circostanze particolari, es. sei di notte o in vacanza). Il Dipartimento in cui lavori spesso organizza delle sessioni di teaching indipendenti da quelle del Foundation Programme, e riservate a tutti i medici che lavorano nel dipartimento, ma spesso queste sessioni non sono protette e non c’è obbligo di frequenza.

La paga

Durante il Foundation Programme, così come durante la restante parte del training post-laurea, si viene pagati. La paga dipende principalmente da due fattori: 1) La tua anzianità; 2) quanto intenso è il lavoro, soprattutto in termini di ore medie settimanali e ammontare di lavoro “out of hours” (cioè al di fuori di un orario di lavoro considerato normale, vale a dire dal Lunedì al Venerdì, dalle 9:00 alle 17:00).

Il punto 1 è piuttosto intuitivo: più si avanza nel training, più aumentano le responsabilità, ma anche lo stipendio. Qui si trova una tabella indicativa con i salari di base annui per i medici in Inghilterra, a seconda del grado. Si vede che la paga base per un FY1 è di circa £26,600 annui, mentre un FY2 viene pagato circa £30,800 annui (lordi).

Il punto 2 è piuttosto complicato da spiegare in breve – in poche parole, a seconda di quante ore si lavora in media a settimana (per es. tra 40 e 48 ore settimanali, o tra 48 e 56, etc), e di quante ore si lavorano in una fascia oraria “unsociable” (es. se si lavora 1 weekend ogni 4, o un 1 weekend ogni 3 etc), si viene assegnati ad una “fascia” (banding). La fascia agisce come un moltiplicatore sul salario di base, e serve a calcolare quanta paga aggiuntiva si ha rispetto allo stipendio di base. Per esempio, se si è in una fascia 2B, si viene pagati il salario di base + un supplemento del 50% del salario di base. La fascia cambia a seconda del reparto in cui lavori – per esempio, nello stesso ospedale, i junior doctors che lavorano in cardiologia potrebbero avere una fascia diversa rispetto ai junior doctors che lavorano in otorinolaringoiatria. Più informazioni si trovano qui.

Il senso comunque è che più la vostra vita sarà assorbita dal lavoro, e più sarete pagati. Nei lavori più impegnativi non avevo tempo di fare praticamente niente, e durante i miei (pochi) giorni liberi ero in coma – ma a fine mese mi ritrovavo con una discreta paga sul conto. Viceversa, durante i miei lavori più leggeri, ho avuto più tempo libero e orari più vivibili, ma la paga è stata minore.

Ci sono anche altri fattori che influenzano l’ammontare della paga: dove si lavora (la paga media è diversa in Inghilterra e in Scozia, per esempio), e se si decide volontariamente di lavorare dei turni extra dove ce n’è bisogno. Per esempio, ci si può offrire volontariamente per lavorare per un turno in A&E (simile al nostro Pronto Soccorso) se un membro dello staff è malato, e facendo così si guadagnano un po’ di soldi extra.

In pratica, quanto ci si può aspettare di guadagnare, al netto, durante il FP? Come ho già spiegato, probabilmente il fattore più importante è il banding (in ultimo determinato dal reparto in cui lavorate). In linea di massima, durante il Foundation Programme aspettatevi di guadagnare all’incirca tra i £2,150 ed i £2,800 mensili in molti dei vostri jobs (più verso i £2,150 come FY1, più verso i £2,800 come FY2).

Durante il mio FY1, questo stipendio per me è stato ampiamente sufficiente per vivere bene (in un appartamento piuttosto grande, con altri due coinquilini) e mettere una discreta somma da parte. Insomma, non sono diventato ricco, ma arrivare a fine mese non è stata una preoccupazione. Ovviamente il costo della vita cambia a seconda di dove vivete. Per es. con lo stesso affitto con cui in una città media o piccola ci prendete un discreto appartamento, a Londra siete costretti a vivere in un sottoscala decrepito in condivisione con altre 8 persone e 1 bagno – ovviamente è un’iperbole, ma neanche tanto. Al di fuori di Londra, il costo della vita è solo un po’ più alto che in una città medio-grande del Centro-Nord Italia.

Spostarsi

Il sogno italiano spesso è quello di “sistemarsi”. Si trova un posto che piace, si compra casa, e si vive lì a tempo inderminato o almeno per un bel po’ di anni. La brutta notizia è che questo stile di vita è sostanzialmente incompatibile con il training medico in UK.

Spostarsi e lavorare in diversi ospedali è pressoché la regola durante tutto il training, compreso il Foundation Programme e il training di specialità. La logica dietro questo continuo spostarsi è che viene ritenuto essenziale che si acquisti un’esperienza il più eterogenea e “a tutto tondo” possibile – ci si sposta per avere occasione di lavorare con il numero più alto possibile di Consultant, per essere esposti a diversi dipartimenti, Ospedali, e modi di lavorare.

Durante il Foundation Programme, avere rotations in due o più ospedali è pressoché la regola. Spesso almeno uno degli ospedali è un District General Hospital, cioè un ospedale periferico, “di provincia”. Spesso questi ospedali sono parecchio distanti gli uni dagli altri, per cui diventa necessario trasferirsi fisicamente da una città all’altra.

Nel mio caso, ho lavorato durante il mio FY1 in un Ospedale Universitario relativamente grande, mentre nel mio FY2 ho lavorato in un District General Hospital a più di 100 km di distanza (!). Col senno di poi, sono contento di avere avuto la possibilità di lavorare in entrambe le strutture. Effettivamente sono esperienze differenti – l’Ospedale Universitario è più grande, efficiente, l’attività più frenetica, e si vedono un gran numero di casi, compresi anche quadri clinici particolarmente rari o complessi che in un DGH non si vedranno mai. C’è più staff, e in generale si è più “sorvegliati” dai propri senior. Gli svantaggi sono che il lavoro è anche molto più stressante; le persone sono più tese e meno amichevoli; e, se è vero che si è più “protetti” dalla presenza costante dei propri senior, non è sempre detto che i tuoi senior abbiano molto tempo da dedicarti; inoltre, avrai meno occasioni di prendere le tue decisioni e crescere professionalmente, perché spesso c’è qualcuno più senior a prendere le decisioni al posto tuo. Spesso si ha l’impressione di essere un piccolo ingranaggio in un meccanismo a orologeria molto, molto più grande.

Di contro, nel District General Hospital si ha l’impressione che l’attività sia più tranquilla, e il numero di pazienti tenda a essere più gestibile. Tende a esserci meno staff, ma questo spesso sembra essere più rilassato e amichevole, ed essendo l’ospedale più piccolo, dopo un po’ conosci, almeno di vista, un po’ tutti. Gli svantaggi sono che rispetto all’Ospedale Universitario, il DGH in cui ho lavorato è risultato essere un po’ meno organizzato. Mi sono sentito meno protetto, specialmente out of hours, ma riconosco che questa è stata anche una occasione per prendere delle decisioni vere in autonomia, sviluppare la mia indipendenza e crescere professionalmente. Insomma, ogni vincolo è una opportunità.

La vera rottura di scatole sono i continui traslochi – dover traslocare ogni anno sta diventando un rito ansiogeno di fine anno che ho imparato ad odiare. Ogni anno, si ripete lo stress di dover cercare un appartamento che piaccia, in una zona che piaccia (non malfamata, non troppo lontana dall’ospedale, accessibile, etc), mettersi d’accordo con l’agenzia per visitare l’appartamento, e poi firmare il contratto, sperare che il credit check vada bene, etc. Etc. Poi devi inscatolare tutte le tue cose, organizzare il trasloco, comunicare il nuovo indirizzo alla banca, al Consolato, etc. In pratica, quando hai la sensazione di essere finalmente arrivato a conoscere l’ospedale e la città in cui lavori, devi trasferirti di nuovo. Non si sta in nessun luogo abbastanza a lungo da poter mettere radici, e non si sta in nessun appartamento abbastanza a lungo da poterlo chiamare casa. Il training medico in UK dura circa 10 anni dalla laurea alla completamento del training, e si tratta di 10 anni di instabilità e traslochi continui. Fare progetti a lungo termine o crearsi una famiglia diventa qualcosa di non banale.

La Lingua

Mi sembra abbastanza scontato che per fare il medico in UK non basta “masticare un po’ di inglese”. Prima di venire in UK ero piuttosto a mio agio con l’inglese; per la maggior parte dell’Università ho studiato direttamente su libri in Inglese, per cui anche la terminologia medica era piuttosto familiare per me. Ho superato il test di lingua senza grosse difficoltà, al primo tentativo. Ciononostante, la lingua ha rappresentato un ostacolo non da poco nelle prime settimane di lavoro. Così come in Italia ci sono accenti e dialetti regionali, in UK ci sono accenti diversi, che cambiano anche molto da regione a regione, e che possono essere piuttosto diversi dall’inglese standard. I pazienti possono essere anche molto difficili da capire (gli scozzesi di Glasgow sono ben noti per avere un accento non semplice da capire, per esempio). Così come in Italia si trovano persone difficili da capire (es. perché parlano molto veloce, o perché non scandiscono bene le parole, o perché parlano a voce molto bassa), così si trovano in UK, tra pazienti e colleghi. Inoltre, il personale sanitario e i pazienti provengono da tutto il mondo, e sul posto di lavoro ci si trova immersi in una quantità di accenti internazionali: accento indiano, pachistano, greco, tedesco, malese, cinese, egiziano, polacco, canadese, americano, spagnolo, etc. Non tutti gli accenti sono facili da capire, specie se non si è abituati e se l’altra persona ha un accento forte. Io pensavo di parlare inglese decentemente, ma soprattutto durante le prime settimane di lavoro avevo qualche difficoltà a esprimere concetti complessi. Dopo alcune settimane in cui si parla inglese 24 ore su 24, le difficoltà si superano, e adesso ho raramente problemi a capire o a farmi capire.

Prima di venire in UK, pensavo di non avere un accento italiano molto spiccato, ma mi sono dovuto ricredere. Appena inizio a parlare, tutti capiscono che sono straniero, e in genere mi chiedono se sono Spagnolo o Italiano!

I colleghi e la vita sociale

Un altro mito che mi era stato trasmesso era che i britannici fossero un popolo freddo e scostante. Mi era stato detto che avrei avuto difficoltà a farmi amici e avere una vita sociale.

La mia esperienza è stata molto diversa – i britannici sono… persone normali, ognuno con la propria personalità. Incredibile, vero? Alcuni appaiono freddi e poco estroversi, ma anche molti italiani sono freddi e poco estroversi – almeno nell’Italia centrosettentrionale, da cui provengo. La maggior parte dei britannici con cui ho lavorato si sono dimostrati in realtà molto aperti, cordiali e simpatici, e non ho avuto particolari problemi a stabilire rapporti di amicizia.  Due settimane fa sono stato invitato ad un barbecue organizzato da un collega con cui ho lavorato mesi fa e con cui siamo rimasti in buoni rapporti, e capita di uscire con alcuni dei miei colleghi con cui ho lavorato nel mio primo reparto. In alcuni reparti magari non vi legherete molto ai vostri colleghi, mentre in altri reparti troverete colleghi simpatici con cui formerete rapporti stretti, e che continuerete a sentire anche dopo che avete cambiato lavoro. In sostanza, io non ho avuto grossi problemi a formare amicizie.

Il clima e il cibo

Due delle principali ossessioni degli Italiani quando si tratta di vivere in UK sono il clima e il cibo. L’italiano medio pare vivere di assoluti, per cui se non si possono mangiare i tortellini della nonna e non si può avere l’espresso come lo fa il bar sotto casa, allora il cibo fa schifo; se il clima è lievemente diverso da quello a cui si è abituati, fa schifo. A causa di questi stereotipi estremamente provinciali, quando sono arrivato in UK avevo delle aspettative bassissime.

Non posso parlare per tutto l’UK, ma nella mia esperienza, né il cibo né il clima sono risultanti così terribili come ero stato indotto a credere. No, non troverete i tortellini della nonna, ma in compenso i supermercati sono pieni di cibi indiani, polacchi, turchi, asiatici, etc – se avete un minimo di apertura mentale, è divertente sperimentare diversi piatti e sapori. Molti ingredienti di base che si trovano in Italia, si trovano anche qui – magari i pomodori non sono buoni come quelli cresciuti nell’orto dello zio, ma con un po’ di fortuna li trovate più che decenti, e potete cucinarvi molti dei piatti che vi cucinavate in Italia. Per quanto riguarda il clima, mi aspettavo che piovesse praticamente sempre. In realtà è solo molto più variabile che in Italia – piove spesso, ma solo per qualche ora, e poi si rischiara. Durante l’ultimo anno, ho usato l’ombrello per andare al lavoro forse 10-15 volte – in Italia lo usavo molto, molto più spesso. Le belle giornate non sono così rare, e in definitiva, c’è molto, molto più sole di quanto mi aspettassi. Gli inverni non sono molto più rigidi che in Italia. L’unica stagione molto diversa è l’estate – in Italia l’estate equivale a teletrasportare la propria città nell’Africa subsahariana per 3 mesi. Qui d’estate le temperature sono piacevoli e compatibili con la vita umana (15-25 gradi) e piove come nelle altre stagioni. Personalmente odiavo l’estate in Italia, e mi piace molto di più l’estate qui in UK.

Insomma, per quanto mi riguarda il clima o il cibo non sono risultati nemmeno lontanamente così terribili come mi aspettassi.

 

Nel prossimo e ultimo post, parlerò del dopo: cosa mi è rimasto del FP, cosa ho imparato, e cosa farò dopo.

 

La mia esperienza con il Foundation Programme, Parte 1/3

Quasi due anni fa, il 3 agosto 2016, ho cominciato il Foundation Programme in UK* (*piccola precisazione: molti italiani sembrano usare il termine “Inghilterra” per riferirsi alle isole britanniche in generale. Il termine corretto è Regno Unito o United Kingdom. Inghilterra è England, solo uno solo dei quattro paesi che formano il Regno Unito assieme a Scozia, Galles, e Irlanda del Nord. Il training segue lo stesso schema in tutto l’UK).

Sono adesso alla fine del mio secondo anno (FY2), e pochi giorni fa ho avuto il responso dell’ARCP, l’Annual Review of Competence Progression: Outcome 6. Ottenere Outcome 6 significa che la commissione ha stabilito che ho raggiunto tutti gli obiettivi formativi e ho acquisito tutte le competenze necessarie: in altre parole, ho completato con successo il Foundation Programme. Essendo giunto alla fine, ho deciso di scrivere un post con un resoconto della mia esperienza in questi ultimi due anni. Questo post è indirizzato soprattutto a studenti di medicina e colleghi interessati alla formazione medica in UK, ma cercherò di spiegare le cose in modo che l’articolo risulti comprensibile anche a chi non è familiare con l’argomento. Come potete intuire, avrei tantissimo da dire sugli ultimi due anni, e avrei materiale per numerosi post. Per semplicità, ho deciso di suddividere il tutto in 3 grossi post: il prima, il durante, e il dopo.

In generale non ho niente da nascondere, ma preferisco non rendere ovvia la mia identità, per cui rimarrò intenzionalmente vago circa i luoghi nei quali ho fatto il FP. Parlerò delle mie esperienze in generale, con l’idea di fare un bilancio di questi due anni, e cercherò di evitare di riferirmi ad esperienze specifiche.

Parte 1: Prima del Foundation Programme

La situazione in Italia

Prima di spiegare cos’è e come funziona il Foundation Programme (FP), illustrerò brevemente cosa succede ad un neolaureato in Medicina in Italia.

Attualmente in Italia, dopo la laurea in Medicina e Chirugia, non si può esercitare legalmente la professione di medico-chirurgo senza una abilitazione: in altre parole, la sola laurea in Medicina e Chirurgia non ti rende automaticamente medico. Si acquisisce l’abilitazione all’esercizio della professione di medico-chirurgo (con iscrizione all’Albo) dopo un tirocinio non retribuito di 3 mesi, al termine dei quali è richiesto il superamento di un Esame di Stato (costituito da quesiti a risposta multipla). Generalmente si fa un mese di tirocinio in un reparto di medicina, uno in un reparto di Chirurgia e un mese con un Medico di Medicina Generale. Questo tirocinio post-laurea ricalca il modello dei tanti tirocini fatti durante il corso universitario: quello che si fa (o non si fa) è molto variabile, e dipende dal reparto che si frequenta e dall’iniziativa individuale. Di fatto non ci sono degli obiettivi formativi che si devono raggiungere; quello che veramente conta è la mera frequenza – il resto è tutto a discrezione di chi ti supervisiona. Se si è fortunati, si trovano medici pronti a coinvolgerti nelle attività del reparto e propensi a farti “sporcare le mani”; tuttavia, per molti colleghi, questo tirocinio è prevalentemente osservativo. La reale possibilità di acquisire ulteriori conoscenze o competenze durante il tirocinio di abilitazione è quindi estremamente variabile e lasciata al caso e alla buona volontà del reparto in cui frequenti – per cui se ai medici non importa niente di te, non impari molto. In generale l’abilitazione è vista da molti colleghi come una formalità o una perdita di tempo necessaria. A riprova di questo, si è parlato per anni di eliminare questa trafila, introducendo la cosiddetta laurea abilitante. Questo è recentemente divenuto realtà, per cui da Luglio 2019 l’esame di abilitazione non esisterà più. Faccio notare come praticamente nessuno si sia lamentato di questa modifica.

Le possibilità lavorative per un medico abilitato ma non specializzato sono limitate: sostituzioni del medico di medicina generale; servizio sulle ambulanze; quella che un tempo era chiamata “guardia medica”; ed un certo numero di altre mansioni piuttosto settoriali (guardia medica turistica, medico di bordo, medico per le cliniche private, medico per le carceri, etc). In generale, nessuna di queste opzioni è veramente sostenibile a lungo termine, per cui quello che in pratica succede è che dopo la laurea e l’abilitazione, quasi tutti cercano di entrare in un programma di formazione specialistica il prima possibile. La principale eccezione è costituita da chi aspira ad una carriera accademica, e magari considera un dottorato o simili.

Entrare in formazione specialistica significa guadagnare l’accesso al corso di formazione di medicina generale, oppure ad una delle scuole di specializzazione dedicate alle varie branche della medicina o della chirurgia (es. Cardiologia, Neurochirurgia, Psichiatria, Immunologia, Anestesia, etc). L’accesso alla formazione specialistica è regolato da una selezione, che avviene a livello regionale per il corso di medicina generale, ed a livello nazionale per le scuole di specializzazione. Attualmente il processo di selezione per le scuole di specializzazione prevede un test, composto da un certo numero di quesiti a risposta multipla, a cui viene aggiunto un “bonus” di punteggio in base al curriculum.

Una volta entrati in una scuola di Specializzazione, il percorso di formazione dura 5 o 6 anni (a seconda della specifica branca), al termine dei quali si acquista il titolo di Specialista. Durante la specializzazione si viene pagati, guadagnando circa 1700-1800 euro al mese. La stragrande maggioranza di questi 5 (o 6 anni) saranno passati lavorando nell’ambito della specialità di riferimento.

Cos’è il Foundation Programme

Il Foundation Programme è paragonabile, concettualmente, al nostro tirocinio di abilitazione, ma sul piano pratico ci sono sostanziali differenze. Si tratta di un programma della durata di due anni, che tutti i medici in UK devono intraprendere prima di poter accedere a fasi successive del training. Durante il primo anno (FY1), i medici hanno una abilitazione “temporanea” (Provisional Licence to Practise) che consente di esercitare esclusivamente nel contesto protetto del FP. L’abilitazione temporanea consente ad un FY1 di lavorare come medico, sebbene ci siano alcune cose che non si possono fare con una provisional licence to practise, come per esempio fare prescrizioni al di fuori dell’ambiente ospedaliero o firmare certi documenti. Se il primo anno viene completato con successo, ed il medico è considerato competente, si ottiene la piena abilitazione (Full licence to practise). Durante il secondo anno (FY2) si continua a lavorare, in genere con una maggiore indipendenza ed autonomia, ed una volta completato con successo il FY2, si può accedere al training di specialità.

Durante il FP, si ha la possibilità di lavorare nell’ambito di un ampio numero di specialità mediche e chirurgiche, cambiando specialità ogni 4 (o, più raramente, 6) mesi. Il senso è quello di far sì che il medico acquisisca un set di competenze piuttosto vasto. A differenza dell’abilitazione italiana, si tratta di un vero e proprio lavoro, piuttosto che di un tirocinio: durante il FP si è parte attiva dell’equipe del reparto, e le mansioni che ci si trovano a svolgere sono comparabili a quelle che avrebbe un giovane specializzando in Italia.

Perché il Foundation Programme?

Come mai ho deciso di tentare la strada del Foundation Programme? Senza scendere troppo nei dettagli, i fattori fondamentali sono stati due. Arrivato alla fine dell’università, ero estremamente indeciso su cosa fare, e non mi sentivo pronto a scegliere un percorso specialistico. Ho fatto la tesi in Neurologia, ma in generale mi piaceva molto tutta la Medicina Interna; ero combattuto tra il desiderio di specializzarmi e quello di essere un generalista. Ero inoltre affascinato dalla ricerca, e per un breve periodo ho anche considerato l’idea di fare un PhD. Il Foundation Programme rappresentava un percorso ideale per me perché mi avrebbe consentito di sperimentare diverse specialità nel corso di due anni; da una parte speravo che mi avrebbe aiutato a chiarirmi le idee sul mio futuro, dall’altra mi piaceva la struttura del training in UK, che sembrava fatta per generare specialisti con una buona base generalista. L’altro fattore era l’accessibilità: l’UK è un paese Europeo (lo spettro della Brexit era ancora lontano al tempo), il che significava che trasferirsi e lavorare in UK era estremamente semplice. L’unico requisito linguistico era l’inglese, lingua con cui mi trovavo estremamente a mio agio. Infine, il percorso di application appariva molto chiaro e ben strutturato.

Prima: L’Application per il FP

L’application per il Foundation Programme per i laureati internazionali comincia circa un anno prima dell’inizio effettivo del lavoro.

Tradizionalmente, i medici neolaureati iniziano a lavorare il primo mercoledì del mese di Agosto (cosiddetto changeover, noto anche come Mercoledì Nero, dal momento che questa data sembra essere associata ad un aumento della mortalità dei pazienti, aneddoticamente attribuita all’inesperienza dei giovani medici). Le application per il Foundation Programme che inizierà es. ad Agosto 2019 cominciano alla fine di Luglio 2018. Nel mio caso, ho iniziato il processo di application alla fine del Luglio 2015. A differenza di molti miei colleghi neolaureati, io non ho preso l’abilitazione in Italia, in quanto tecnicamente questo ti rende non-idoneo a cominciare il Foundation Programme da FY1. Se si è abilitati in Italia, si può cominciare da FY2, ma si tratta di un percorso che sconsiglio per una serie di motivi che non approfondisco.

Non mi dilungherò nel descrivere in dettaglio il processo di application, che è descritto passaggio per passaggio nell’Applicant’s Handbook, scaricabile dal sito ufficiale del Foundation Programme. Le ragioni per non descriverlo passo passo sono varie: in parte, sarebbe lungo e richiederebbe un intero post a sé stante; in parte, il processo sembra cambiare lievemente di anno in anno; in parte, non credo sia particolarmente interessante dato che altri miei colleghi hanno già parlato in dettaglio delle loro esperienze; segnalo in particolare Barcielonda e Nella Terra dei Canguri (in fase di quiescenza dal 2015). Basti sapere che è un processo non necessariamente difficile ma piuttosto lungo e laborioso, che richiede l’invio di numerosi documenti e almeno un viaggio in UK.

Le difficoltà che ho incontrato sono state legate per lo più all’ottenimento di documenti specifici da parte della mia Università, documenti che in alcuni casi non sono stato in grado di ottenere; questo in una delle fasi dell’application mi ha posto in una posizione di svantaggio in graduatoria. Ovviamente, l’ufficio UK accetta unicamente documenti in Inglese, per cui ho dovuto provvedere alla traduzione dei documenti che la mia Università rilascia unicamente in Italiano (come il Certificato di Laurea), anche questo fonte di numerosi grattacapi.

Si devono anche dimostrare le proprie competenze linguistiche con l’Inglese, superando un esame di lingua (nel mio caso l’IELTS Accademico). Il punteggio minimo che viene richiesto non è facilmente ottenibile senza un buon livello di inglese (direi almeno un C1). Questo certificato va ottenuto prima dell’application, per cui ci si deve muovere per tempo in modo da essere sicuri di averlo per fine Luglio. Io, forse con una dose eccessiva di spavalderia, lo feci a inizio Luglio (con il rischio di non avere il certificato in tempo per l’application qualora non avessi ottenuto il punteggio minimo). Per fortuna andò bene, ma sconsiglierei di fare come ho fatto, perché l’IELTS è notoriamente rognoso, e alcune persone (compresi madrelingua) faticano a raggiungere il punteggio minimo.

Il Situational Judgement Test

Come parte del processo di application, si deve anche prendere parte ad un Situational Judgment Test (SJT), che potrei descrivere in maniera approssimativa come un test attitudinale. Questo test può essere fatto solo in UK, ed i posti sono limitati. Io lo feci a Gennaio, a Londra. Si tratta di un test che non richiede alcuna conoscenza specifica di medicina. Ci sono diversi tipi di quesito – nel formato più comune, viene descritta una situazione ipotetica, e viene presentata una serie di reazioni o risposte a questa situazione. Il compito del candidato consiste nel formulare un giudizio e ordinare le reazioni dalla più appropriata alla meno appropriata. A titolo di esempio:

Sono le 8 di mattina, e hai appena finito un turno di notte molto impegnativo nel reparto di medicina per acuti. Mr Dean, un paziente con insufficienza renale acuta, ha bisogno di avere i suoi esami del sangue ripetuti tra 4 ore. Vai da Gerard, un tuo collega FY1, che sta cominciando il suo turno in reparto. Tenti di passargli le informazioni sul caso di Mr Dean per assicurarti che gli esami del sangue siano effettuati, ma Gerard si arrabbia e dice che ha una lunga lista di pazienti da visitare, e adesso deve andare in un altro reparto a causa di un’emergenza. Si rifiuta di accettare le tue consegne. Ordina le seguenti azioni in risposta a questa situazione dalla più appropriata alla meno appropriata.

  1. Resta in reparto e occupati personalmente degli esami del sangue
  2. Spiega a Gerard che adesso lui è responsabile per i pazienti in reparto, per cui deve accettare le tue consegne.
  3. Trova un altro collega che possa occuparsi del caso di Mr Dean
  4. Informa Gerard che lascerai istruzioni dettagliate riguardo il caso di Mr Dean nella cartella clinica del paziente, così che possa controllare più tardi
  5. Informa una infermiera della situazione, e chiedile di trovare un altro medico che possa eseguire gli esami del sangue.

In una domanda di questo tipo, viene assegnato un punteggio a seconda di quanto l’ordine che il candidato assegna alle varie alternative si conforma all’ordine stabilito dalla commissione che ha elaborato le domande – il metodo con cui il punteggio viene assegnato è un po’ macchinoso, ma basti sapere che c’è un ordine “giusto”, e il punteggio che si ottiene diminuisce quanto più l’ordine stabilito dal candidato si discosta da quello considerato “ideale”. In generale, le situazioni presentate sono spinose, e richiedono di bilanciare principi o doveri in conflitto tra di loro. È fondamentale applicare i principi di Good Medical Practice del GMC (una sorta di codice etico di cui parlerò in dettaglio più avanti) ma serve anche una certa dose di buon senso. Per esempio, nella situazione di cui sopra, è chiaro che il benessere del paziente è una priorità, per cui è tuo dovere assicurarti che questi esami del sangue in qualche modo vengano fatti; verrebbe spontaneo pensare che restare in reparto e occuparsi personalmente della cosa (A) sia un’iniziativa lodevole; però allo stesso tempo hai diritto di riposarti dopo un turno lungo e faticoso, e lavorare quando sei stanco ti espone ad errori e incidenti sul lavoro (come bucarsi con l’ago, cosa successa realmente a me alla fine di un faticoso turno di notte!), per cui (A) è in realtà tra le risposte meno appropriate tra quelle presentate. Le risposte appropriate sono assicurarsi che gli esami del sangue vengano fatti dal team che ha appena iniziato, però es. chiedere all’infermiera di trovare qualcuno che lo faccia (E) è meno appropriato che impegnarti personalmente a trovare il collega (C), visto che non sei affatto sicuro che l’infermiera sappia chi contattare o lo faccia davvero.

Questo esame può apparire bizzarro ad un italiano, abituato a essere valutato su conoscenze di tipo nozionistico, ma ha un suo razionale che viene spiegato nella relativa monograph. Se state ridacchiando pensando che un test fatto così sia una stupidaggine, sappiate che test di questo tipo sono utilizzati da anni per la selezione di personale nell’ambito dell’esercito e dei servizi segreti. La mia opinione personale è positiva – ho apprezzato che il reclutamento sia in parte affidato ad un test non nozionistico.

La graduatoria e le preferenze

Il punteggio ottenuto nell’SJT viene sommato ad un altro punteggio derivato dalla performance universitaria dei candidati. Il risultato è un punteggio finale sulla base del quale viene stilata una graduatoria nazionale di tutti i candidati. Durante il processo dell’application, al candidato viene chiesto di ordinare tutte le sedi in UK dove viene effettuato il Foundation Programme, note come Foundation School. Ogni Foundation School gestisce l’organizzazione del FP in un’area geografica più o meno vasta, ma che potremmo paragonare a quella di una piccola regione italiana. Si ordinano le sedi dalla più desiderata alla meno desiderata, generando una lista di preferenze. Alcune sedi ovviamente sono più competitive di altre (es la zona di Londra è più competitiva di quella di, per esempio, Liverpool), con un trend che vede le zone più popolose del Regno Unito meridionale (come Londra, appunto) essere più ambite di quelle meno popolose della parte settentrionale. In generale, il Foundation Programme non è molto competitivo: c’è posto per quasi tutti, anche se magari non nel posto che si era messo come prima scelta. La gran parte dei candidati comunque finisce in una delle loro prime 5 scelte.

Una volta che si viene accettati in una delle Foundation Schools, intorno a Marzo, si viene assegnati ad una serie di rotations (le specialità in cui si lavorerà) con un metodo che in pratica cambia da luogo a luogo. Dopo questa fase, inizia un processo di controlli pre-assunzione (pre-employment checks), e se tutto va bene, intorno a metà-fine luglio vi verrà dato l’ok per iniziare il FP. Ovviamente, per allora dovrete già essere sul posto.

Il trasferimento e le faccende pratiche

Prima dell’inizio del Foundation Programme e del lavoro vero e proprio ci sono un sacco di cose da fare, dalla ricerca di un posto dove vivere, all’apertura del conto in banca così da poter essere pagati, ai diversi controlli richiesti per l’inizio del lavoro. Alcune di queste cose si possono fare (o almeno cominciare a fare) dall’Italia, ma per molte altre si deve essere in UK. So che alcune persone cercano di trasferirsi in UK con diverse settimane o mesi di anticipo per poter frequentare un reparto e sistemare le varie faccende burocratiche. Se si ha la possibilità (soprattutto dal punto di vista economico) non è affatto una cattiva idea – io ritenni questa opzione troppo dispendiosa, per cui mi trasferii in UK definitivamente a inizio Luglio 2016.

Il momento in cui acquistai un biglietto di sola andata per l’UK fu una delle prime occasioni in cui mi resi davvero conto di quello che stavo facendo. Fino ad allora, avevo semplicemente seguito i diversi passi dell’application. Completato un passaggio, ero subito assorbito dal passaggio successivo; il momento di trasferirsi definitivamente in UK sembrava lontano e nebuloso, e non ci avevo mai davvero pensato come ad un’evenienza concreta. Il momento in cui acquistai il biglietto aereo, senza un ritorno, fu il primo momento in cui ripresi contatto con la realtà – stava succedendo davvero, me ne stavo andando. Un altro momento di presa di coscienza fu quello delle valigie: un conto è fare la valigia con l’idea di stare via due settimane per una vacanza, un conto è farla con l’idea di non tornare e dover decidere quali pezzi della propria vita portarsi dietro.

Riguardo le varie faccende pratiche, io cercai di sbrigare quante più incombenze possibile dall’Italia, cercando di incastrare gli impegni e le faccende pratiche rimanenti nel periodo successivo al mio arrivo. Vi assicuro che cercare casa in UK dall’Italia non è stato per niente facile. Le agenzie immobiliari sono generalmente schizzinose e piuttosto esigenti. Chi viene da oltre la Manica e sta cercando di affittare una proprietà per la prima volta non ha la vita facile a causa dei numerosi requisiti necessari. Molte agenzie richiedono una prova tangibile che si abbia un contratto di lavoro di durata sufficiente a coprire il periodo di affitto (es. se si vuole affittare una casa per 12 mesi, dovete dimostrare di avere un contratto di 12 mesi) e una credit check, un controllo sul proprio background per accettare che non si abbia una storia di insolvenza. Frequentemente sono richieste anche delle referenze. Inoltre, le case possono essere costose a seconda di dove vivete. Molti italiani sono ossessionati dall’idea di vivere a Londra, come se fosse l’unica città del Regno Unito, ma sappiate che a Londra potreste trovarvi a pagare centinaia di sterline al mese per vivere in una topaia in condivisione con altre 8 persone. In altre città in UK, con la stessa cifra, si può vivere molto meglio. Molti ospedali offrono la possibilità di risiedere nella Hospital accommodation (cioè appartamenti molto spartani generalmente nei pressi dell’ospedale, riservati allo staff), ma i posti sono limitati e non è sempre facilissimo ottenere questo tipo di soluzione. Io fui fortunato, e trovai due futuri coinquilini grazie ad un gruppo Facebook dedicato a nuovi FY1. Furono loro ad occuparsi degli aspetti pratici della ricerca di un appartamento, e questo rese le cose infinitamente più semplici per me. Mi trovai ad avere un bell’appartamento, ragionevolmente vicino all’ospedale, ad un prezzo piuttosto contenuto dal momento che dividevamo l’affitto in tre. 

Quando mi trasferii in UK a Luglio, mi rimaneva da aprire un conto in banca e richiedere il National Insurance Number (una specie di codice fiscale, necessario per lavorare, che si può richiedere solo una volta che si è in UK), più un altro paio di faccende pratiche legate al lavoro. La cosa frustrante è che per fare quasi qualunque cosa in UK, compreso aprire un conto in banca, serve una “proof of address” – tipicamente sono accettate bollette o simili. Ma se si è appena arrivati in UK dall’estero, spesso la proof of address non la si ha. Per fortuna, una delle banche a cui mi rivolsi offriva l’apertura di conti in banca ai cittadini UE in possesso di passaporto, per cui riuscii ad aprire il conto in banca senza troppi problemi.

Altre faccende pratiche che mi rimanevano erano i controlli dell’Occupational Health e il Prescribing Safety Assessment (PSA). In sostanza, prima di poter avere il nulla osta per iniziare a lavorare, si deve fare una visita all’Occupational Health per il controllo dello stato vaccinale. In questa occasione vengono anche fatti degli esami del sangue per controllare che si sia negativi per HIV, HBV e HCV; i test vengono fatti in condizioni rigorose, e richiedono l’identificazione formale con passaporto o simili. Il Prescribing Safety Assessment è un test che fu introdotto come requisito per il FP per la prima volta durante il mio intake. Il nome è abbastanza chiaro: si tratta di un test che valuta l’appropriatezza delle prescrizioni, la conoscenza degli effetti avversi dei farmaci, la capacità del candidato di saper calcolare rapidamente dosi e concentrazioni, e la capacità di saper utilizzare il British National Formulary, l’equivalente UK del Prontuario Farmaceutico Nazionale. Per fortuna ho passato il test senza difficoltà; devo dire che l’ho trovato un test piuttosto utile ai fini del lavoro.  Maggiori informazioni sul test si possono trovare qui.

Si comincia: l’Induction

Generalmente, i giorni immediatamente precedenti al primo giorno di lavoro “vero” sono piuttosto intensi e sono dedicati all’induction e allo shadowing (termini difficilmente traducibili in italiano). 

L’induction è il processo in base al quale si viene introdotti ad un nuovo posto di lavoro. Di solito, prima dell’inizio del FP c’è una induction generale, a cui tutti gli FY1 devono partecipare,  e una induction specifica del dipartimento in cui si inizierà a lavorare, a cui partecipano gli FY1 che lavoreranno in quel reparto.

In pratica, durante l’induction i futuri FY1 vengono istruiti su come funziona l’Ospedale in cui lavoreranno. Si viene inoltre provvisti del proprio badge identificativo, e si viene riempiti di fogli, depliant e manuali varii contenenti i dati d’accesso ai varii sistemi informatici, istruzioni su come usare il cercapersone, come si richiedono test diagnostici, come si fanno le lettere di dimissione, il protocollo per le trasfusioni etc. Noi dovemmo anche completare una serie apparentemente infinita di moduli eLearning per imparare ad usare i sistemi informatici dell’ospedale. L’induction specifica del dipartimento in genere tratta l’organizzazione del turno di lavoro tipo, incluso dove e quando viene effettuato l’handover (il passaggio delle consegne), di quali reparti si è responsabili, quale numero di cercapersone si ha durante il turno di lavoro, come è strutturato il giro visite, etc. In generale, l’induction è molto pratica, e fornisce informazioni che sono direttamente utili per lo svolgimento giornaliero del proprio lavoro. Se non sbaglio, la mia induction generale durò due giorni, mentre la mia induction specifica del reparto durò un giorno.

Una volta effettuato questo processo di induzione, cominciano alcuni giorni di shadowing. Fare shadowing significa affiancare un medico e seguirlo nelle sue attività. Nel contesto del FP, tipicamente si fa shadowing di uno degli FY1 che già lavorano nel reparto (e che quindi sono alla fine del loro primo anno). Questa è un’ultima, preziosa opportunità per prendere dimestichezza con quella che di lì a pochi giorni sarà la vostra routine, e cercare di carpire “tips and tricks” da qualcuno che ha fatto per diversi mesi quello che in pochi giorni sarà il vostro lavoro. Durante lo shadowing ero molto in ansia, e mi sentivo assolutamente impreparato a ciò che mi aspettava. Sospetto che questo sia lo stato mentale di quasi tutti quelli che si trovano a fare la difficile transizione da studente a medico. D’altra parte, essere straniero, in un sistema completamente diverso da quello in cui ero stato formato, in un ambiente di lavoro dove si parla una lingua che non è la mia, mi rendeva giusto un pochino più ansioso di altri.

E prima che potessi rendermene conto, arrivò il mio primo giorno di lavoro.

つづく to be continued…

Tecniche GM: scene framing

Lo scene framing è una tecnica che è virtualmente impossibile non usare in un gioco di ruolo, specialmente se si ricopre il ruolo di GM; per cui, se avete fatto il GM almeno una volta, l’avete certamente utilizzata, anche se è la prima volta che sentite questo termine. In effetti, lo scene framing è talmente intrinseco al gioco di ruolo che si potrebbe discutere se si tratti di una tecnica o di parte integrante del giocare di ruolo.

Però un conto è usarlo, un conto è usarlo bene.

Cos’è lo scene framing

Scene framing significa, letteralmente, inquadramento della scena. Lo scene framing è, in parole povere, quando mettete uno o più personaggi in una certa situazione. Per esempio, prendiamo l’inizio di campagna D&D più classico e (ab)usato:

Siete nella Taverna del Grande Goblin Gigante…

Ecco, fermi. È questo. Avete appena inquadrato la scena, anche se non ve ne eravate nemmeno accorti. Gli elementi assolutamente fondamentali per inquadrare una scena infatti sono due:

  1. chi c’è;
  2. dove siamo.

E qui infatti abbiamo entrambi gli elementi: quel “siete” fa capire ai giocatori che tutti i personaggi sono presenti, e il “dove” è la taverna.

Una cosa che dovrei aggiungere a questo punto è che nei giochi tradizionali classicamente è il GM che inquadra le scene; tuttavia, non è detto che debba fare tutto da solo. Per esempio, quando il GM passa da un giocatore all’altro e chiede “E mentre succede questo tu dove sei? Chi c’è con te?” si sta facendo aiutare dal giocatore nell’inquadramento della scena. Idem quando il GM descrive una situazione e chiede al giocatore “come sei finito qui?”. I giochi non tradizionali spesso hanno regole proprie per gestire lo scene framing, ed è difficile fare discorsi generali; per esempio, in alcuni di questi giochi il concetto di scena è presente in modo esplicito nelle regole, ed alcuni giochi richiedono di decidere espressamente di cosa parlerà la scena, dove si svolge, chi è presente etc – e non è sempre il GM a decidere; talvolta le varie decisioni sono affidati a giocatori differenti. Affronterò l’argomento dalla prospettiva di un gioco tradizionale sia per semplicità, sia perché lo scene framing come viene impostato da alcuni giochi non tradizionali tende a non piacermi.

Torniamo a noi. Abbiamo detto che il minimo sindacale per inquadrare una scena è il “chi” e il “dove”; tuttavia, quasi mai lo scene framing consiste soltanto nel dire chi c’è e dove siamo. Riprendendo l’esempio di cui sopra, il GM potrebbe dire:

Siete nella Taverna del Grande Goblin Gigante e state bevendo un bel boccale di idromele. Nella Taverna c’è qualche avventore, ma tra chi sbadiglia e chi chiacchiera a bassa voce con il vicino di tavolo, l’atmosfera è parecchio rilassata. Che fate?

ma potrebbe anche dire…

Siete nella Taverna del Grande Goblin Gigante e la Taverna sta andando a fuoco! Intorno a voi è il caos: fumo, urla, rumore di vetri infranti, tavoli rovesciati, gente che corre, frecce che saettano da tutte le parti. Fuori sentite rumore di combattimento. Che diavolo fate?

Qual è la differenze tra queste due scene?

La prima pone i personaggi in una situazione tranquilla, dove non sta succedendo niente di particolare. Non è richiesta alcuna azione immediata; se i personaggi non fanno qualcosa di attivo per far andare avanti gli eventi in gioco in una direzione interessante, di per sé non succede niente – almeno sul base del contesto descritto nello scene framing iniziale.

Nella seconda scena è vero il contrario: pone i personaggi in mezzo ad una situazione tesa, pericolosa, che richiede azioni e decisioni immediate. I personaggi non possono ignorare la situazione in atto; e se non fanno niente, ci sono tutte le premesse perché succeda qualcosa di brutto.

Quindi, il terzo elemento che è generalmente presente quando si inquadrano le scene è il “che cosa sta succedendo?. E a seconda della risposta a questa domanda, lo scene framing può essere modulato da situazioni molto blande e tranquille a situazioni estremamente tese. Insomma, il GM, nell’inquadrare le scene, può essere più o meno aggressivo nel tipo di situazioni che vengono presentate (si parla proprio di aggressive (o hard) scene framing).

Come usarlo

Se è vero che tutti i GM usano questa tecnica, consapevolmente o meno, è altrettanto vero che gestire lo scene framing efficacemente non è facile. Questa non sarà una vera e propria guida su come usare bene questa tecnica, perché penso che non sia qualcosa che si possa realmente insegnare. Si impara con l’esperienza.

Lo scene framing può essere innanzi tutto utilizzato per gestire il ritmo di gioco. Per esempio,  è quasi sempre una buona idea usare lo scene framing per tagliare i tempi morti. Usare lo scene framing in questo modo è importantissimo in un one shot, dove il tempo è limitato; direi comunque che si tratta di un uso quasi sempre appropriato, in qualunque gioco.  I tempi morti sono quelli dove non succede niente di interessante, o quello che succede comunque non è il focus del gioco. Dunque, invece che narrare “live” ogni singolo momento di gioco, si passa direttamente alle parti interessanti. Esempio:

Giocatori: “Saliamo a bordo dell’astronave e ci rechiamo su quel pianeta che non compare sulla mappa stellare della Federazione, ma di cui abbiamo ottenuto le coordinate.”

GM: “Ci siete. Uscite dal tunnel dell’Iperspazio, e davanti a voi vedete il piccolo pianeta, la cui atmosfera ha un colore verdastro. Siete atterrati.”

Altro esempio:

Giocatore: “Voglio andare ad uccidere Lord Karlowe. Aspetto la notte e poi cerco di infiltrarmi nel palazzo.”

GM: “Fammi una prova di Stealth… riuscita? Bene. Sei riuscito a insinuarti nel palazzo non visto. Hai attraversato in perfetto silenzio le sale deserte del palazzo, avvolte nell’ombra, e adesso sei davanti alla sua stanza. Ci sono due guardie davanti. Che fai?”

Se non ci sono ostacoli tra i PG e il loro obiettivo, qui ha senso passare semplicemente alla scena successiva. La logica di fondo è cercare di passare direttamente all’azione, o comunque alle parti interessanti del gioco, il più rapidamente possibile. Purtroppo, vedo un sacco di GM che non riescono a farlo. Questo generalmente succede quando i giocatori fanno qualcosa di imprevisto o che il GM è restio a far accadere: quindi temporeggia, tergiversa, e non passa efficacemente alla scena successiva. E così abbiamo magari viaggi che sarebbero dovuti durare 30 secondi che invece durano 2-3 sessioni semplicemente perché il GM è restio a far arrivare i giocatori a destinazione, o è restio a mettere i personaggi di fronte a certe situazioni perché gli rovinano le uova nel paniere. Il mio consiglio spassionato qui è: let it go, lasciate correre. Distaccatevi. Liberatevi dalla tentazione di mantenere lo status quo. Smettete di voler controllare il destino dei PNG e dell’ambientazione. Non abbiate paura del personaggio che vuole uccidere un PNG importante, o viaggiare verso un luogo a cui non avevate pensato. Cercate di risolvere la cosa come dei referenti imparziali. Limitatevi a guardare che succede, lasciate che le cose abbiano il loro corso.

Lo scene framing è estremamente utile anche in queste situazioni:

  •  quando vi sembra che il gioco si stia ammosciando, e sentite che è il momento di far succede qualcosa;
  • quando volete aumentare la tensione del gioco;
  • quando sentite che il fallimento di una prova (o equivalente, a seconda del gdr a cui state giocando) dovrebbe mettere il personaggio in una brutta situazione.

In tutti questi casi, diventa importante modulare l’aggressività della scena.

Giocatore: “Vado al mercato a rivendere il bottino che abbiamo trovato nel dungeon.”

Scene framing non aggressivo: “Ok. Sei al mercato e stai camminando tra i banchi. Trovi un mercante, e ora sei davanti a lui. Cosa vuoi vendergli?” (oppure: “Ok, vendi tutto per 700 monete imperiali. <passa alla scena successiva>”)

Scene framing un pochino più aggressivo: “Ok. Sei al mercato e stai camminando tra i banchi, quando vedi un tizio che da un vicolo buio ti fa insistentemente cenno di avvicinarti. Che fai?”

Scene framing aggressivo: “Ok. Sei al mercato e stai camminando tra i banchi, quando ad un certo punto senti una mano premerti violentemente sulla bocca. Vieni strattonato e trascinato in un vicolo, e prima che tu possa reagire ti buttano malamente a terra, in mezzo a fango e sudiciume. Intorno a te ci sono 4 uomini dalle facce truci, e hanno in mano dei coltelli. Che fai?”

Ho fatto diversi esempi di scene framing, da quello più passivo a quello più aggressivo.

Una scena è tanto più aggressiva quanto più essa è “non ignorabile”. Non ignorabile vuol dire che la scena richiede azioni o decisioni rapide dai giocatori. Essere aggressivi vuol dire descrivere roba concreta che sta accadendo, e sta accadendo ORA, e continua ad accadere mentre parliamo, e c’è bisogno di fare qualcosa perché se la situazione viene lasciata a sé stessa saranno c*zzi amari. Pensate ad un problema, ad un conflitto o ad un avvenimento che abbia la capacità di scuotere il piccolo mondo del giocatore.

Ovviamente quando si ha l’impressione che debba succedere qualcosa o si vuole movimentare il gioco, inquadrare la scena in modo troppo passivo è indesiderabile, in quanto di fatto non aumenta la tensione. D’altra parte, uno scene framing molto aggressivo è delicato da gestire. Qui è difficile dare consigli generali. Dipende molto dalla sensibilità e dallo stile del GM, dal gioco a cui si sta giocando, e dai vostri giocatori.

In generale, uno scene framing troppo aggressivo tende a funzionare male quando non c’è totale fiducia tra giocatori e GM (e ancora meno quando il rapporto è antagonistico). Riesco facilmente a immaginare giocatori che, di fronte alla situazione descritta nella scena più aggressiva, protesterebbero vivacemente (“no, strattonato un corno… appena mi sento tappare la bocca, io faccio una prova di forza per non essere buttato a terra! Ma poi scusa, deve fare una prova di lotta prima di potermi afferrare così!“). Anche il gioco fa molta differenza: in un gioco come Apocalypse World lo scene framing più aggressivo nell’esempio di cui sopra potrebbe funzionare benissimo, mentre trovo che in giochi tradizionali come D&D uno scene framing troppo aggressivo sia percepito da molti giocatori come eccessivamente intrusivo, e per alcuni rovini l’immersione. Credo che in D&D mi fermerei ad uno scene framing moderatamente aggressivo (come nel secondo esempio), o comunque gestirei la situazione in modo un po’ diverso (a meno che non conosca bene i giocatori ed i loro personaggi).

Adesso metto le mani avanti. Alcuni stanno sicuramente preparando commenti indignati: “MA QUESTO È RAILROADING!”.

Risposta: ni.

In breve: il railroading implica rendere irrilevanti le decisioni dei giocatori, mentre lo scene framing aggressivo impone ai giocatori di prendere decisioni.  Il railroading è quando un evento del gioco ha un esito stabilito a priori, a prescindere delle azioni dei giocatori. Un inquadramento di scena aggressivo può essere visto come un kick-starter per qualcosa di interessante: ha lo scopo di mettere il personaggio in una situazione iniziale carica e spronarlo all’azione o a prendere decisioni, senza che questo implichi un outcome predeterminato. Ovviamente, l’inquadramento di una scena *può* essere usato per railroadare i giocatori, ma questo non è automatico. Dipende da come viene applicato.

Detto questo, è vero che iI confine tra un railroad e uno scene framing molto aggressivo può essere sottile e in ultimo soggettivo. E di nuovo, dipende molto dal gruppo e dal gioco.

 Una scena come quella dell’ultimo esempio *a me* andrebbe bene, ma magari per un altro giocatore quella scena sarebbe già oltre.

Continuando a parlare con una prospettiva da giocatore, se il GM aprisse la scena con gli assalitori che mi hanno *già* derubato, e che sono in procinto di fuggire (dandomi dunque la possibilità di inseguirli se lo voglio), per me sarebbe una situazione un po’ al limite, ma tutto sommato sempre accettabile. Magari una scena così non sembrerebbe per niente railroadosa ad un’altra persona.

Prendiamo sempre lo stesso esempio, e supponiamo che il GM descriva il personaggio che viene trascinato in un vicolo, picchiato e derubato, aprendo la scena con i suoi assalitori che sono già scappati, senza possibilità di raggiungerli. Secondo me questo in molte situazioni sarebbe percepito come railroading. Per come la vedo io, non si potrebbe più parlare di scene framing aggressivo, perché il personaggio non viene messo in mezzo ad una situazione tesa ed eccitante – viene semplicemente privato di controllo mentre gli succede una cosa brutta che non può evitare in alcun modo.

In ultimo, si tratta di una questione di sensibilità personale.

In generale, per quanto aggressivo voglia essere, io cerco di evitare di inquadrare scene che presuppongono decisioni significative da parte del giocatore. Per esempio, potrei dire:

“La sera stai rientrando verso il tuo appartamento, quando noti delle persone – cinque o sei – che aspettavano nei pressi del portone. Appena ti vedono, si dirigono verso di te con passo deciso. Sempre camminando, uno tira fuori una pistola e la punta verso di te. Che fai?”

Ma nella maggior parte dei casi eviterei di dire:

“La sera stai rientrando verso il tuo appartamento, quando noti delle persone – cinque o sei – che aspettavano nei pressi del portone. Gli chiedi che c*zzo vogliono, e dopo uno scambio di convenevoli poco piacevoli, l’aria si scalda – uno tira fuori una pistola e la punta verso di te. Che fai?”

perché implica che il personaggio abbia deciso di parlare con i tizi piuttosto che, che ne so, scappare o nascondersi.

Questo esempio evidenzia un altro problema che si può verificare con uno scene framing troppo aggressivo: potrebbe succedere di inserire il personaggio in situazioni che il giocatore ritiene non appropriate, o dare per scontato un corso d’azione che il giocatore ritiene non consono al personaggio.  Per esempio, il GM inquadra la scena con il personaggio che origlia una conversazione tra due criminali mentre si trova in uno strip club – ma il giocatore protesta vivacemente perché il suo personaggio non frequenterebbe mai uno strip club.

Questo problema si crea perché di fatto durante lo scene framing il GM sottrae una parte del controllo al giocatore – cosa che generalmente evito il più possibile. Queste situazioni si evitano conoscendo i personaggi. Possono essere in parte prevenute anche includendo gli input del giocatore nello scene framing (“dove vai di solito quando vuoi bere qualcosa?”; “Dove si trova il tuo personaggio la sera?”). Quando accadono, si dovrebbe consentire al giocatore un’opportunità per aggiustare le cose (“ok; se il tuo personaggio non frequenterebbe mai uno strip club, come mai ci sei?”); altrimenti, se non spezza l’immersione, si dovrebbe aggiustare i dettagli finché tutti sono soddisfatti (“allora non è uno strip club, è un normale bar”). Se il giocatore proprio non è contento, o non si riesce a trovare una soluzione che renda tutti contenti, conviene fermare un attimo il gioco e parlare di quali sono le vostre aspettative reciproche.

Infine, uno scene framing troppo aggressivo ed incalzante può dare al gioco un ritmo troppo frammentato, dove il gioco procede troppo bruscamente da una scena assurda alla successiva, come in un film d’azione di serie B.

Un altro modo per usare l’inquadramento delle scene è per gestire il tempo in game. Avete presente quando un numero incredibile di avvenimenti importanti, che si sviluppano nello spazio di 3-4 sessioni di gioco, in game si concentrano tutti nello spazio di poche ore? A volte questa concentrazione temporale è appropriata, ma altre volte no. Quando non lo è, può aver senso inserire forzatamente degli intervalli temporali quando si inquadra la scena successiva. “Passano un paio di settimane”, “Dopo un mese da questi avvenimenti”, “è passato un anno dall’ultima volta che…”, etc. etc. Questo talvolta crea il problema di come gestire eventuali attività che i giocatori potrebbero aver intrapreso nel frattempo. Il vostro gioco di scelta potrebbe avere regole apposite per gestire questo tipo di situazioni. Per es. D&D 5E ha delle regole per le attività di downtime che potreste voler sfruttare; Ars Magica prevede che i personaggi maghi spendano gran parte del loro tempo in complesse ricerche; Torchbearer e Pendragon inseriscono il passare delle stagioni nelle meccaniche di gioco. Se niente di tutto questo si applica al vostro gioco, il mio consiglio è di gestire la cosa nel modo più semplice e veloce possibile (a meno che l’attività in questione non sia il focus del gioco): astraete quanto più possibile in una singola prova di abilità, mossa o simili.

Concludendo

In questo post ho suggerito alcuni modi per inquadrare le scene. Questo non è un elenco esaustivo, ma quantomeno si tratta dei modi più comuni con cui io uso questa tecnica.

Come accennavo all’inizio, lo scene framing non è un qualcosa che si può insegnare – dipende molto dalla sensibilità e dal “talento” del GM per la gestione del gioco. Al massimo posso dire come lo faccio io, ma non è detto che lo faccia bene, o che il mio metodo funzioni per tutti i gruppi. Usare bene lo scene framing vuol dire anche essere in grado di capire intuitivamente quando è il momento concludere una scena e passare alla successiva; vuol dire avere una percezione intuitiva di quando è il momento di essere più aggressivi, e quando è il momento di essere più passivi; vuol dire essere in grado di azzeccare quello sweet spot che separa tra uno scene framing aggressivo e un railroad, e avere una comprensione intuitiva dei giocatori che avete davanti.

Si tratta più di un’arte che di una scienza; ma con la pratica si diventa più bravi.

 

Guida al genere: post-apocalittico

Quando ebbi modo di fare il GM per un one shot a Worlds in Peril mi venne il dubbio che la mia scarsa familiarità con il genere supereroistico avesse avuto un impatto negativo sull’esperienza in generale. Non so quanto fosse accurata questa percezione, ma in generale penso che nei giochi di ruolo una certa familiarità con il genere possa essere d’aiuto. Mi è quindi venuta l’idea di scrivere delle “Guide al genere” – guide in cui vorrei fornire gli elementi essenziali per inquadrare un genere (bibliografia, filmografia, ludografia, tematiche più frequenti, consigli, etc). Ho deciso di iniziare con il genere post-apocalittico, perché 1) mi piace 2) lo conosco abbastanza bene 3) mi pare che sia un genere poco conosciuto e un po’ bistrattato. Non so se avrò modo di scrivere altre guide, ma sicuramente buoni candidati per future guide sono lo Sword & Sorcery e il Cyberpunk.

Ora, non fraintendetemi – non ho scritto questa guida basandomi sull’assunto che non dovreste tentare di giocare un gdr post-apocalittico senza essere familiari con il genere. Quindi chiariamo bene: nessuno ha bisogno di una guida per affrontare un gioco in un certo genere. Penso unicamente che la familiarità con il genere possa risultare utile per giocatori e GM, e offrire spunti interessanti a tutto il tavolo.

 

Guida al Genere: Post-Apocalittico

 

 As the world fell, each of us in our own way was broken. (source)

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Premesse e inquadramento del genere

“Apocalisse” è una parola che deriva dal greco, e che originariamente significava “rivelazione”; poi ad un certo punto il termine ha perso questo significato per assumerne un altro, completamente diverso. Questo è avvenuto soprattutto a causa dell’Apocalisse di Giovanni, il “libro della Rivelazione” dove veniva narrata la fine del mondo. Oggi apocalisse significa “catastrofe; disastro; cataclisma”. Il termine richiama in particolar modo l’idea di un evento distruttivo sconvolgente che pone fine al mondo come lo conosciamo.

La narrativa post-apocalittica esplora la possibilità della sopravvivenza umana dopo l’apocalisse. (Utilizzerò il termine “narrativa” in senso lato, per riferirmi a qualunque prodotto di fiction, e non solo al racconto scritto). Insomma, lo sci-fi post-apocalittico riguarda principalmente il dopo: ciò che rimane in seguito ad un evento, più o meno protratto nel tempo, che ha drasticamente e irreversibilmente danneggiato la società umana e/o l’ambiente, tipicamente su scala globale. Dato che l’apocalisse è generalmente immaginata come un evento distruttivo di portata globale (non necessariamente improvviso), nel dopo l’umanità si ritrova in condizioni estremamente diverse da quelle in cui siamo oggi. La civiltà è stata scardinata, e l’umanità viene spesso immaginata come sprofondata in una sorta di nuovo medioevo, oppure come quasi interamente decimata, lasciando la terra quasi disabitata.

Da un punto di vista classificativo, è corretto distinguere il genere propriamente apocalittico (dove gli eventi fittizi si verificano mentre l’apocalisse inizia o è in corso) da quello post-apocalittico in senso stretto (l’apocalisse è già avvenuta e il  mondo ha avuto più o meno tempo per assestarsi). Ora, effettivamente si tratta di generi lievemente diversi; per esempio, The Day After Tomorrow (it. L’Alba del Giorno Dopo, 2004) è un disaster movie che potrebbe essere correttamente considerato apocalittico più che post-apocalittico. Tuttavia, sono generi molto vicini tra loro, per cui mi limiterò a farvi notare che questa distinzione esiste, ma personalmente non ci starò molto attento.

La distinzione tra la narrativa post-apocalittica e quella distopica a volte è sfumata, ed effettivamente ci può essere una certa sovrapposizione (o anche una coesistenza) tra le due. In generale,  la “distopia” implica la presenza di una società organizzata che funziona in modo perverso, e che viene percepita come non desiderabile o spaventosa; mentre nel genere post-apocalittico la società organizzata in senso moderno spesso manca del tutto. Nella narrativa di tipo distopico in genere c’è una qualche forma di critica ideologica, ed è tipico il tema del conflitto “individuo vs società oppressiva” – temi che non sono tipici della fiction post-apocalittica. Ci sono comunque tantissime eccezioni, ed abbondano gli esempi di fiction che potrebbero tranquillamente appartenere ad entrambi i generi (esempio: The Time Machine di H.G. Wells), o dove realtà post-apocalittiche e distopiche coesistono (esempio: Judge Dredd). Come per il paragrafo precedente, penso che voler separare troppo nettamente i due generi non sia utile.

Riassumento, gli elementi fondamentali del genere sono: 1) l’apocalisse: un cambiamento sconvolgente e irreversibile più o meno lontano nel tempo e più o meno graduale; 2) il focus sul dopo, sull’impatto fondamentale che questo cambiamento distruttivo ha avuto su chi è sopravvissuto e sulla società umana. 3) il focus sull’adattamento del genere umano o del singolo individuo alla nuova condizione, che in genere viene declinato nella domanda “come se la passa la gente ora che la società come la conosciamo è collassata?”.

 

Fonti

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Qualcosa da leggere

–  Cormac McCarthy – The Road (2006). Trad. it. La Strada (Einaudi, 2010). Un uomo e suo figlio attraversano un’America irriconoscibile, cercando di sopravvivere e raggiungere il mare. Uno dei libri più deprimenti e cupi che abbia mai letto, ma bellissimo. Per quanto mi riguarda, se dovete leggere un libro solo di questa lista, leggete questo.

– José Saramago – Ensaio sobre a cegueira (1995). Trad. it. Cecità ( Feltrinelli, 2013). La cecità si diffonde improvvisamente, come un’epidemia, in una città. Tutto collassa: ordine, leggi, umanità. Più apocalittico che post-apocalittico, ma comunque molto bello.

Stephen King – The Stand (1978). Trad. it. L’ombra dello Scorpione. Un’epidemia ha sterminato quasi completamente l’umanità; i sopravvissuti finiscono per scontrarsi in una sorta di lotta Bene contro Male.

Jack Vance – Dying Earth. Una “serie” fantasy post-apocalittica (comprendente per lo più racconti brevi); è stata tra parentesi una grossa influenza per D&D (la classica magia “vanciana” viene proprio dai racconti di Vance).

Max Brooks – World War Z: An Oral History of the Zombie War (2006). Trad. it. World War Z. La guerra mondiale degli zombi. Le premesse non sono molto originali: la classica infezione che trasforma tutti in zombie. A me non ha fatto impazzire – direi un libro senza infamia e senza lode – ma ha avuto un grande successo. Boh, magari sono io che non sono un grande amante degli zombie.

Walter M. Miller – A Canticle for Leibowitz (1960). Trad. it. Un cantico per Leibowitz. Vabbé, questo è un classicone, anche se è un po’ datato in certi suoi aspetti. Il libro, ambientato negli USA in un futuro post-atomico, ruota attorno ad un ordine monastico che ha lo scopo preservare ciò che rimane della conoscenza scientifica dell’umanità pre-apocalisse. Le vicende si svolgono nel corso di centinaia di anni. Se conoscete un po’ la chiesa cattolica è molto divertente.

Pat Frank – Alas, Babylon (1959). Trad. it. Addio Babilonia. Altro classicone del filone post-apocalittico post-nucleare che era di moda negli anni ’50 e ’60. Racconta le vicende di una cittadina della Florida nell’immediato periodo dopo un attacco nucleare sugli USA.

– Richard Matheson – I am Legend (1954). Trad. it. Io sono Leggenda. Ennesimo classico, incentrato sulle vicende di Robert Neville, il solo sopravvissuto di una pandemia che trasforma le vittime in vampiri. C’è anche un adattamento del 2007 (con Will Smith), che però non trovo particolarmente fedele al libro.

– Se preferite i racconti brevi ai romanzi (come me), l’unica raccolta di cui sono a conoscenza è Wastelands: Stories of the Apocalypse, a cura di  John Joseph Adams. Tuttavia non saprei fino a che punto consigliarla perché a me non è piaciuta particolarmente, nonostante la presenza di alcuni grossi nomi (Stephen King, George R. R. Martin, Cory Doctorow, Gene Wolfe). I racconti davvero degni di nota secondo me sono una manciata. Vedete voi.

Qualcosa da vedere

La serie di Mad Max: Mad Max (1979), Mad Max 2: The Road Warrior (1981), Mad Max 3: Beyond Thunderdome (1985), Mad Max: Fury Road (2015).  Genere: azione/avventura (più o meno). Vabbé, questo per forza. Una serie cult, che ha avuto un immenso impatto sulla cultura popolare e sull’immaginario post-apocalittico. Hokuto no Ken? Mad Max + arti marziali. Guerrieri della Strada? Mad Max: il libro game. Fallout? Mad Max + umorismo + anni ’50. Potrei continuare. Praticamente ha definito il genere per quanto riguarda le “distese desolate post-olocausto nucleare”, anche se in realtà nei primi due film il collasso della civilizzazione sembra dovuto ad una crisi energetica; solo in Mad Max: Beyond Thunderdome e Fury Road il mondo è esplicitamente post-atomico. I migliori sono Mad Max 2: The Road Warrior e Mad Max: Fury Road. Fury Road in particolare è forse il miglior film d’azione che abbia mai visto. Beyond Thunderdome non è male, però io non lo amo (non mi piace molto la seconda parte del film); guardatelo pure se vi va. Il primo Mad Max potete saltarlo se volete, dato che  è abbastanza diverso dai film successivi sia come stile che come atmosfere ( è un film “peri-apocalittico” se volete).

The Road (2009). Genere: drammatico. Un adattamento abbastanza fedele del libro omonimo. A me è piaciuto tantissimo (essendomi piaciuto il libro), ma vi avverto che ha un tono molto diverso da Mad Max. Non è un film d’azione, e, come il libro, è parecchio deprimente e angosciante. Il libro è emotivamente devastante, e questo non è da meno.

The Book of Eli (2010), it. Codice Genesi. Genere: azione/avventura. Palesemente ispirato a Mad Max. Non è un capolavoro, e non è molto originale, ma può meritare darci un’occhiata per entrare nell’atmosfera e nel mood della classica desolazione post-atomica.

Nausicaä della Valle del vento (1984). Il secondo film d’animazione di Miyazaki, che affronta il genere post-apocalittico senza scopiazzare Mad Max. Lo stile è quello di Miyazaki, il che può piacere o meno; tuttavia, il film è piacevolmente immaginativo e gli ambienti e le creature fantastiche riescono a incantare ancora oggi.

28 days later (2002), it. 28 giorni dopo. Genere: horror. Un virus che trasforma le persone in animali rabbiosi e violenti viene diffuso tra la popolazione per errore. Il film segue le vicende di un ragazzo londinese che si risveglia dal coma 28 giorni dopo l’evento. Ovviamente questo è in pratica un film di zombie – sebbene non ami il genere, mi è sembrato ben fatto.

– Escape From New York (1981). Questo è uno di quei film che potrebbero essere considerati distopici o post-apocalittici. Ho deciso di includerlo in quanto lo trovo vicino ad un film post apocalittico nell’estetica.

Waterworld (1995) e Doomsday (2008), it. Doomsday – Il giorno del giudizio. Intendiamoci: questi due film non sono capolavori. Doomsday è un film stupido e pieno di cliché, però l’ho incluso perché è una sorta di polpettone senza pretese dell’estetica dei film post-apocalittici degli anni ’70 e ’80. Waterworld è un film noto soprattutto per essere uno dei più grandi flop della storia del cinema, però vorrei spezzare una lancia a suo favore: non è un bel film, ma non è *così* male. Lo cito soprattutto perché il mondo sommerso, con la gente che vive sulle barche, mi ha sempre affascinato.

Altro

Videogames (non sono un esperto): la serie di Fallout, la serie S.T.A.L.K.E.R, Metro 2033, Wasteland 1 & 2, The Last of Us, This War of Mine, RAGE.

Serie TV (idem): The Walking Dead (2010), Survivors (BBC, 2008), Jericho (2006), Falling Skies (2011), The 100 (2014)

Fumetti/manga (non ne so niente): Hokuto No Ken (trad. it. Ken il Guerriero), ????

Musica: questo video.

Immagini & ispirazioni: Flickr 1, Flickr 2, imgur, deviantart.

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Gli scenari più comuni

Gli scenari che più comunemente si ritrovano nella fiction post-apocalittica tendono a riflettere, com’è facile immaginare, le ansie e le paure collettive degli anni in cui i diversi lavori sono concepiti.

L’olocausto nucleare. Uno degli scenari più classici, forse quello più rappresentativo del genere. Scenario tipico: una guerra nucleare annienta la maggior parte della popolazione umana, trasformando la terra in un deserto radioattivo e inospitale, punteggiato da macerie e rovine. Lo storico intro di Ken il Guerriero è piuttosto esemplificativo (“Siamo alla fine del ventesimo secolo. Il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche…“). Questo è uno scenario che divenne molto comune nella narrativa post-apocalittica a partire dagli anni ’50, e che continuò a essere florido per tutti gli anni ’80, sull’onda della crescente ansia nucleare legata anche alla Guerra Fredda. Un sondaggio condotto dalla NBC/Associated Press alla fine dell’81 mostrò che più del 75% degli Americani si aspettavano una guerra nucleare nel corso delle loro vite.

La pandemia. Anche questo è uno scenario comunissimo, e per di più nemmeno troppo inverosimile. Scenario tipico: un agente infettivo estremamente contagioso stermina rapidamente la gran parte della popolazione mondiale, oppure trasforma la gente in qualcosa di inumano. Di solito si tratta di virus, e non raramente gli agenti infettivi in questione sono stati creati o ingegnerizzati dall’uomo e poi sfuggiti al controllo. Questo tipo di scenario esorcizza le ansie legate al diffondersi delle malattie e al bioterrorismo: alla fine degli anni ’70 emergono i virus delle febbri emorragiche – Ebola e Maburg – estremamente contagiosi ed estremamente letali; negli anni ’80 emerge lo spettro dell’AIDS. Più recentemente abbiamo avuto la SARS e la minaccia costante del bioterrorismo.

La catastrofe naturale. Questo è il tipo di apocalisse che potremmo aspettarci da Roland Hemmerich. Inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, collisioni con asteroidi, eventi astronomici, nuove glaciazioni, scioglimento dei ghiacci, desertificazione della terra, spegnimento del sole, etc. etc. È un tipo di apocalisse la cui responsabilità può essere o meno attribuibile all’uomo. In generale, concretizza la preoccupazione riguardo le questioni ambientali, che c’è sempre stata (giustamente) ma che ritengo particolarmente attuale di questi tempi.

Esaurimento delle risorse naturali. Può essere considerata una variante dello scenario precedente. Generalmente è un tipo di apocalisse più lento e graduale (una “soft apocalypse“), in cui la società e l’economia si dissolvono lentamente ma inesorabilmente via via che le risorse e le fonti di energia si esauriscono. La terra si spegne lentamente, in certi casi trasformandosi gradualmente in un luogo inabitabile. Un esempio è la premessa del film Interstellar, in cui questo tipo di scenario può essere intuito da certe battute del film (“The Delhi Mission Control went down same as ours, ten years ago“; “Well in my day, people were too busy fighting over food to even play baseball“; “But like the potatoes in Ireland and the wheat in the dust bowl, the corn will die. Soon.“; “I heard they shut you [NASA] down, sir, for refusing to drop bombs from the stratosphere on the starving people“; “You know, one of those useless machines they used to make was called an MRI“, lasciando intuire che l’elio, necessario per il funzionamento delle risonanze magnetiche, sia esaurito – e notare che questa non è fantascienza, l’elio si sta già esaurendo). Giusto per evitare equivoci: Interstellar è un film di fantascienza – l’elemento post-apocalittico è nelle sue premesse.

Creature non umane/eventi soprannaturali. Alieni, macchine, tecnologie fuori controllo, demoni, mostri, etc. etc. Vedi anche apocalisse zombie, che può essere considerato un “sottoscenario” particolare appartenente a questo genere. In genere c’è una forza estranea, non umana, forse poco comprensibile, che sta cercando di attivamente di sterminarci. Nel caso di eventi soprannaturali, le dinamiche sono più simili a quelle delle catastrofi naturali. Questo tipo di scenario è correlato alla paura di ciò che è diverso o sconosciuto, oppure non spiegabile razionalmente.

L’apocalisse zombie. Scenario tipico: ci sono gli zombie. Segue il caos. Le caratteristiche degli zombie variano, ma quasi sempre sono almeno parzialmente ispirati alle creature di Night of the Living Dead di Romero. Sono creature aggressive, violente, pericolose, e possono essere più o meno veloci, forti e intelligenti. Possono essere morti viventi nel senso più letterale del termine, ma in alcuni casi sono semplicemente persone la cui fisiologia o il cui comportamento è cambiato a tal punto da renderli irriconoscibili come esseri umani. In genere la condizione è contagiosa o comunque in grado di sostenersi ed diffondersi in qualche modo. Ho l’impressione che negli ultimi anni molti autori e registi abbiano preferito una spiegazione “scientifica” dello zombie (di solito un virus o comunque un’infezione) a spiegazioni di tipo soprannaturale . In quest’ultimo caso, l’apocalisse zombie è un sottotipo dell’apocalisse pandemica, nel senso che di fatto funziona come una malattia (es. come in  28 Days Later (2002), it. 28 giorni dopo).

Temi

 

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Questi sono i temi principali che vengono esplorati dalla fiction post-apocalittica. Non tutti sono necessariamente presenti contemporaneamente (anzi, alcuni sono probabilmente incompatibili tra loro). Il nocciolo fondamentale è che alla fine della fiera il genere post-apocalittico non riguarda affatto l’apocalisse – piuttosto, tende a funzionare come uno specchio o una lente di ingrandimento che ci consente di riflettere su noi stessi e sulla nostra società.

Il collasso delle strutture sociali e della civiltà come la conosciamo.

Questo è forse il più importante e onnipresente tra i temi ricorrenti esplorati dalla fiction post-apocalittica. Ritengo che questo elemento definisca il genere: togliendo questo elemento, ad un certo punto non si potrà più parlare di genere post-apocalittico; a quel punto probabilmente si tratterà di una distopia. Portare questo elemento all’estremo significa che l’individuo è fondamentalmente lasciato a sé stesso: manca uno Stato che tuteli i deboli, mancano le leggi e qualcuno che le faccia rispettare, mancano tutte le forme di supporto e assistenza. Ciascuno deve pensare a sé, e se si vuole giustizia, bisogna farsela da soli. Niente più infrastrutture, trasporti, comunicazioni, industrie, negozi, scuole, case. Ci si può immaginare un mondo in cui l’umanità è ritornata ad una società essenzialmente primitiva o comunque premoderna. Le forme di società organizzata, se presenti, in genere saranno piccole e isolate, su base locale: piccole comunità, roccaforti, tribù, gang, etc. L’economia, se c’è, potrebbe essere basata sul baratto.

Nel vostro gdr: dovreste spingere molto su questo tipo di elementi, anche se non dovete necessariamente portare il tutto all’estremo. Come si è adattata l’umanità a questo nuovo stato? Come e dove vive la gente? Chi è che comanda? Chi è che fa rispettare le leggi, se ci sono leggi? Oppure c’è solo anarchia e caos? C’è una forma di economia o di scambi, oppure ognuno prende quello che vuole purché sia in grado di farlo?

Scarsità e sopravvivenza.

Nel mondo post-apocalittico, dovete dire addio ai comfort e alle cose di cui oggi diamo per scontata la disponibilità, dalle cose basilari a quelle superflue: acqua pulita, acqua calda, calore, cibo, elettricità, computer, telefoni, televisioni, medicine e ospedali, sicurezza, un letto caldo e asciutto, un riparo – ma volendo anche benzina… o armi. La scarsità è un’altro dei temi classicamente esplorati dalla narrativa post-apocalittica. Prendete tutto ciò che un uomo può volere o di cui può aver bisogno per vivere: mangiare, bere, scopare, un riparo… qualunque cosa vi venga in mente. Ecco, adesso fate conto che non ce n’è abbastanza per tutti.

Nel vostro gdr: Questo è un altro tema che potreste voler enfatizzare. Chiedetevi chi o che cosa limita o controlla le risorse (se c’è qualcuno che le controlla), e cosa succederebbe se terminassero o se chi le controlla smettesse di farvi accedere le persone. Se state giocando ad Apocalypse World, domande a cui potreste ispirarvi sono: Come vi procurate il cibo, e quanto ancora vi basterà questa fonte? Dove prendete l’acqua, e per quanto ne avrete ancora prima che le vostre riserve si esauriscano? Cosa farete quando succederà?  In altri giochi di ruolo, a seconda del tono che ricercate e di cosa vi diverte, potreste voler tenere traccia in modo preciso delle provviste (cibo, acqua, etc), dell’equipaggiamento, del peso trasportato e del passare del tempo, e potreste voler applicare le regole sulla fame, sulla sete, sulle malattie, sull’acqua e il cibo contaminato etc. Tenete presente che tenere traccia di questi aspetti potrebbe rallentare molto il gioco – e non tutti lo trovano divertente. Inoltre, fate attenzione perché applicare queste regole potrebbe portare a far morire i personaggi di fame, sete o malattie – il che non è molto eroico, e per alcuni giocatori potrebbe non essere divertente o non essere coerente con le loro aspettative. Dunque, prima di introdurre questo tipo di regole chiarite (con voi stessi e con gli altri giocatori) le vostre aspettative ed il tono che vorreste che il gioco avesse (es. eroico o non eroico?) e se queste regole aggiungono qualcosa (sono divertenti per noi? È divertente se un personaggio muore di dissenteria?). Regolatevi di conseguenza con la scelta del sistema di gioco e delle regole che applicherete.

Perdita delle conoscenze e delle tecnologie

Questo è un motivo ricorrente che si ricollega a quello precedente e al successivo. In realtà un po’ tutte queste tematiche sono legate tra loro, e una loro separazione è artificiosa. Nel tipico mondo post-apocalittico conoscenze, tecnologie e oggetti sofisticati sono in qualche modo limitati o perduti; il futuro post apocalittico può essere addirittura immaginato come una sorta di nuovo medioevo dove il livello tecnologico è minimo. L’apocalisse porta tipicamente non solo alla perdita di infrastrutture e organizzazioni sociali, ma anche alla perdita di conoscenze, tecnologie e delle persone che le possedevano e sapevano come applicarle. Cioè: l’acqua decontaminata è sempre più rara perché sempre meno persone si ricordano come si riparano i depuratori. Le medicine non si trovano più perché nessuno le fa più. A seconda di quanto siamo distanti dall’Evento, ci potrebbe anche non essere più nessuno che si ricorda a cosa servono le medicine, o addirittura che si ricordi come leggere un libro di farmacologia. O magari c’è ancora qualcuno che le produce, ma magari sono molto costose o limitate. Le tecnologie o le conoscenze del passato potrebbero essere in mano a pochi individui o comunità che fanno pagare a caro prezzo i loro servigi.

Nel vostro gdr: questo è un tema che si presta molto allo sviluppo in un gdr. Già di per sé può fornire spunti molto interessanti (es. recuperare/proteggere conoscenze, tecnologie od oggetti sofisticati; trovare chi può riparare una certa cosa, o chi sa come eseguire un certo intervento medico, e così via). Questo è un tema che può essere sviluppato anche a livello del singolo personaggio, per es. enfatizzando la necessità di riparare le cose che si rompono, o introducendo la possibilità di costruire nuovi oggetti improvvisati sfruttando componenti più semplici (es. vedi il Savyhead in Apocalypse World).

I resti della civiltà precedente

La narrativa post-apocalittica abbonda di richiami alla società pre-apocalisse, sia fisici che metaforici; il genere post-apocalittico è contraddistinto da una sorta di feticismo nei confronti dei resti. Ci sono due principali categorie di resti: resti materiali e resti culturali. Probabilmente in giro per il mondo ci sono resti fisici, concreti, del mondo prima: scheletri di grattacieli; carcasse arrugginite di autobus, treni o macchine; autostrade e ponti parzialmente crollati; cemento, ruggine, metallo, edifici deserti, stanze vuote, polvere, finestre rotte. Magari tra i tesori più preziosi delle persone ci sono piccoli oggetti che oggi sono stupidamente comuni: un lettore CD ancora funzionante, una rivista sgualcita, un libro che non vi verrebbe mai in mente di conservare (una guida turistica con le pagine danneggiate dall’acqua?), una boccetta di profumo, penne ancora in grado di scrivere, cartoline con le scritte sbiadite, vecchie foto, un pettine quasi integro, uno specchio incrinato. I resti culturali (che possono essere fisici o meno) sono onnipresenti e sono una categoria vastissima: in genere questi riferimenti culturali sono riconoscibili per noi, e ci colpiscono  perché sono in qualche modo fuori contesto nel mondo post-apocalittico. Questo perché nel mondo post-apocalittico, le persone potrebbero aver perduto i riferimenti culturali (es. potrebbero conservare un vecchio CD dei Metallica come un cimelio, ma non avere idea di cosa sia; potrebbero custodire gelosamente delle riviste di gossip risalenti a decine di anni prima senza riconoscere i volti delle persone o senza saper leggere). Probabilmente qualcuno utilizza la carcassa arrugginita di un vecchio autobus di linea come una casa; forse dei banditi hanno posto la loro roccaforte in una vecchia scuola, o in una biblioteca. Magari una persona viene chiama Madre Superiora, ma nessuno sa esattamente cosa sia una Madre Superiora. Tutti questi richiami alla società pre-apocalisse sono soprattutto per noi. Noi abbiamo i punti di riferimento culturali per contestualizzare i resti della società pre-apocalisse. L’audience ovviamente *sa* che prima negli autobus ci andava in giro la gente – quindi questi riferimenti servono a noi, per concretizzare il mondo post-apocalittico, caricarlo emozionalmente, e costringerci a fare un paragone con il nostro mondo e il nostro tempo.

Nel vostro gdr: Un tema da tenere presente durante le descrizioni. Descrivete le rovine del mondo di prima – il mondo di gioco dovrebbe essere ricco di riferimenti al nostro mondo, opportunamente “apocalizzati”. Non limitatevi a dire che c’è una strada, descrivete l’asfalto spaccato, le carcasse arrugginite delle macchine che la costeggiano, i grattacieli in rovina sullo sfondo, la vegetazione che ha inglobato il vecchio cartello stradale caduto da una parte.

In tantissimi gdr post-apocalittici viene menzionato lo scavenging. Questo è un termine di difficile traduzione in italiano, ma in pratica designa l’azione di rovistare tra scarti o rifiuti alla ricerca di qualsiasi cosa sia ancora utilizzabile. Molti gdr post-apocalittici hanno regole apposite, e dunque si assume che i personaggi passino una parte del loro tempo a rovistare tra le rovine del mondo di prima alla ricerca di qualcosa che possa essere ancora utile o prezioso. Se questo è un aspetto a cui volete dare peso in termini di regole (la risposta può anche essere no) potete valutare se applicare o creare queste regole.

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Cosa significa essere umani

Cosa succede quando la società, le leggi e le convenzioni sociali crollano? Cosa succede quando non c’è più nessuno ad impedire al più forte di prendersi semplicemente quello che vuole? Si può cadere nelle barbarie – il mondo dopo l’Evento può essere raffigurato come un mondo senza leggi, brutale e spietato, dove la violenza è dovunque, realizzando appieno quella che secondo Hobbes è la condizione dell’uomo nello stato di natura (homo homini lupus e quella roba là). Forse alcuni cercano di fare di tutto per mantenere la propria umanità e non ridursi ad animali, ma ci riusciranno? Cosa succederà quando dovranno scegliere tra i propri ideali e la sopravvivenza di sé stessi o di uno dei loro cari?

Nel vostro gdr: altro tema su cui probabilmente vorrete puntare molto, per gli scopi più disparati: fornire nemici ed opposizione (predoni, gang, banditi, etc), ma anche fornire l’occasione per difficili scelte morali (cosa farebbero i personaggi se si trovassero ad assistere ad un tentativo di violenza? interverrebbero? E se sapessero che facendo così rischierebbero la propria vita?). Inoltre, è un elemento che può creare un notevole impatto a livello emotivo (si pensi all’effetto che farebbe l’introduzione di individui dediti al cannibalismo). Qui c’è bisogno di una certa attenzione da parte del GM: far vedere che i personaggi sono in un mondo crudele e senza leggi va bene, ma assicuratevi di avere il consenso di tutti prima di introdurre contenuti sensibili. Ci sono delle cose che richiedono una certa maturità per essere affrontate, e che potrebbero mettere fortemente a disagio alcuni giocatori (es. stupro). Dunque è vostro compito chiarire se ci sono temi off limits per il gruppo, ed eventualmente assicurarvi che non vengano fuori in game. Uno strumento utile potrebbe essere anche la x-card (http://tinyurl.com/x-card-rpg).

Ricominciare e ricostruire

Dopo l’Evento, ricostruire una qualche forma di civiltà potrebbe essere una delle priorità dei sopravvissuti. Le storie post-apocalittiche che si focalizzano sull’aspetto della ricostruzione della società possono essere contraddistinte da un relativo ottimismo, se non altro perché implica che le persone siano in grado di pensare a qualcosa di più della propria sopravvivenza. Temi che sono spesso associati a questo sono quelli dell’imparare dagli errori del passato e del recuperare e/o preservare la conoscenza

Nel vostro gdr: questo tema può funzionare bene in un gdr, visto che può offrire un sacco di spunti per avventure e avvenimenti interessanti. Localizzare e salvare altri sopravvissuti, garantire la collaborazione di particolari individui o comunità, superare la diffidenza reciproca, difendere ciò che si è conquistato, etc.

I mutanti e lo stile gonzo.

I mutanti nell’immaginario comune sono un qualcosa di comunemente associato alle radiazioni ionizzanti e più in generale all’energia nucleare (vedi per esempio i Simpson); rappresentano dunque un elemento che è facile associare alle ambientazioni post-apocalittiche, in particolare se post-atomiche.

Ovviamente, dal punto di vista dell’accuratezza scientifica,  i mutanti della cultura pop non hanno niente a che vedere con le mutazioni indotte dalle radiazioni ionizzanti: le mutazioni, nel mondo reale, ti fanno venire il cancro. Però è molto più divertente quando le radiazioni, invece di farti morire di leucemia, ti fanno spuntare un paio di braccia in più, un occhio sulla fronte, o ti conferiscono strani poteri psichici. O producono mostri orribili.

In diversi giochi di ruolo, la presenza di creature mutanti è portata all’estremo, producendo un distinto sottogenere che potremmo definire “post-apocalittico gonzo” (meno rappresentato in ambito di libri e film, ma vedi per es. Damnation Alley di R. Zelazny). “Gonzo” è una parola difficilmente traducibile in italiano, ma quello che ci interessa è che “gonzo” qui è utilizzato nel senso di esagerato, caotico, assurdo, schizofrenico, anarchico. C’è tutto e il contrario di tutto: mutazioni nonsense che producono creature folli, androidi, pistole laser e artefatti tecno-magici, in una zuppa disomogenea contenente gli elementi più disparati. Gamma World è stato il primo gioco di ruolo a essere caratterizzato da questo stile, e ha ispirato decine di giochi di ruolo.

Nel vostro gdr: ci sono molti modi per riprendere questo tema in un gioco di ruolo; in generale, c’è ampia scelta di gdr che adottano di default uno stile gonzo, da Gamma World a The Mutant Epoch allo svedese Mutant: Year Zero (ciascuno con la sua sfumatura: il primo è più spensierato e leggero, l’ultimo più cupo). Uno dei modi più semplici e tradizionali di implementare un tono di questo tipo è elaborare tabelle causali per le mutazioni, e riempire il setting di mutanti orribili e/o bizzarri. L’unico limite in definitiva è in ultimo la vostra fantasia.

Cosy catastrophe

Non tra i temi più comuni, ma ci sono diversi esempi; era molto di moda tra gli scrittori inglesi negli anni ’50 e ’60. Ci si riferisce con questo termine ad una particolare branca della fiction post-apocalittica nella quale la stragrande maggioranza della popolazione è in qualche modo annientata, e il protagonista o i protagonisti sopravvivono senza grossi problemi. Al massimo vagano per le città deserte dispiacendosi che non ci sia nessuno in giro. Generalmente i sopravvissuti cercano di ricostruire un qualche tipo di società. Il mondo attorno ai protagonisti può non cambiare in maniera significativa, specie se l’apocalisse è stata rapida e improvvisa, e rimanere dunque familiare – l’apocalisse diviene in questo caso una metafora per l’evasione dalle costrizioni della vita di tutti i giorni.

Nel vostro gdr: secondo me questo è un tema che può funzionare in un romanzo o in un film, ma temo che funzioni male in un gdr; il rischio è quello di non avere materiale sufficiente per sviluppare situazioni interessanti, e dunque che subentri la noia. Se però avete qualche buona idea, andate pure!

 

Giochi di ruolo

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Elencherò brevemente alcuni giochi di ruolo a tema post-apocalittico, in nessun ordine particolare. Diversi di questi li ho provati personalmente, più o meno a lungo – quelli che non ho provato personalmente sono comunque molto noti. Questi giochi non sono certo gli unici – sono solo quelli che conosco io. Vi invito a fare le vostre ricerche; per una trattazione più esaustiva rimando a questa History of Post-Apocalyptic RPGs (in 12 parti, dal 1976 al 2012).

Dark Sun. Oh boy. Probabilmente il mio setting preferito di D&D – e certamente il setting più esplicitamente post-apocalittico. Forse quello più ambizioso e per certi aspetti quello più lontano dal classico fantasy. Praticamente D&D + le distese bruciate di Mad Max [1,2,3,4]. Adoro Dark Sun non solo per questo, ma anche per il look & feel, che mi ha sempre ricordato un po’ le storie di Conan. Se lo rifacessero per bene per D&D 5E sarei un uomo felice (per bene vuol dire più simile all’originale per AD&D 2e che alla versione per D&D 4e). Trovate qui il pdf originale.

Sine Requie Anno XIII. Gioco italiano a tema zombie. Parte da una premessa molto particolare: la storia del mondo di gioco si è allontanata bruscamente dalla storia del nostro mondo il 6 Giugno 1944, quando i morti si sono risvegliati e hanno iniziato ad attaccare furiosamente i vivi. Il gioco è ambientato 13 anni dopo, nel 1957. Il setting è molto interessante e ricco di idee: alcune regioni del mondo sono divenute lande desolate disseminate di macerie; le poche nazioni che sono ancora in piedi sono rette da dittature (es. in Germania c’è il IV Reich; in Italia c’è il Sanctum Imperium, retto da Papa Leone XIV). Il sistema utilizza i tarocchi, ed è molto tradizionale – il che può piacere o meno. Commenti: il sistema è forse un po’ macchinoso, e anche molto letale (specie il combattimento), il che, di nuovo, può piacere o meno. Sito.

Apocalypse World (trad. it. Il Mondo dell’Apocalisse). È il padre di tutti i giochi powered by the Apocalypse. Non ha un setting predefinito; il setting viene costruito collettivamente da tutti i giocatori durante la prima sessione (in altre parole, potrebbe venire fuori un mondo post-apocalittico alla Waterworld, o un mondo congelato come in Snowpiercer, o chissà cos’altro). Comunque l’influenza principale è palesemente Mad Max. È un gioco molto particolare, focalizzato sugli aspetti sociali: il gioco tende a spingere molto sulla tensione e sul conflitto tra personaggi, e l’apocalisse tende a essere un qualcosa che fornisce le premesse per queste tensioni ma poi rimane sullo sfondo. Il sistema è ovviamente un powered by the Apocalypse (pbta), estremamente innovativo all’epoca. Non è pesante in termini di regole, ma capire come si gioca non è facile. Commento: secondo me è un gioco che andrebbe provato almeno una volta, anche se magari poi vi accorgete che non è esattamente il vostro stile. Sito.

Atomic Highway. Gioco scaricabile gratuitamente, di impostazione tradizionale, e piuttosto leggero e veloce in termini di regole. Il setting che viene assunto dalle regole è un po’ un polpettone post-apocalittico generico e non molto originale (“Humankind has been devastated, populations of billions reduced to millions by nuclear, biological, and chemical warfare. Struggling in the poisoned aftermath of nuclear winter, bands of survivors huddled together for survival, over time forming various sorts of communities.“). L’ambientazione è di fatto talmente generica che è come se non ci fosse nemmeno, e comunque si assume che venga personalizzata dai giocatori. Poi, oh: questa genericità può essere anche un vantaggio, soprattutto se non siete molto familiari con il genere. Tuttavia anche in AH si sente molto l’influenza di Mad Max (vedi le regole per il combattimento tra veicoli); ovviamente ci sono i mutanti, un classico del genere. Il combattimento è veloce e adrenalinico. È stato nominato agli Ennie Award del 2010 nella categoria Best RulesSi scarica qui.

All Flesh Must be Eaten. Si tratta probabilmente del gdr più famoso della Eden Studios, di cui io sono un grandissimo fanboy. AFMBE è un gioco assolutamente tradizionale pensato per fare una cosa sola: gli zombie. Il sistema è il “Classic” Unisystem, il sistema casalingo della Eden Studios; è vagamente ispirato a GURPS (per il quale C.J. Carella ha pubblicato supplementi), ma tende a essere più semplice. Siamo comunque su un grado intermedio di complessità, e nella mia esperienza il combattimento tende a essere un po’ macchinoso. Se volete un gioco tradizionale a media complessità sugli zombie, con la possibilità di creare il vostro setting personalizzato, questo è il gioco che fa per voi. Purtroppo la Eden Studios è praticamente morta :(, e AFMBE è fuori stampa da quasi dieci anni, ma potete trovare il PDF qui.

Other Dust. Un gioco dall’autore di Stars Without Numbers. È un gioco che molti considerano old school: con questo si intende dire che le meccaniche sono fortemente ispirate alle vecchie edizioni di D&D. Si tratta dunque di regole semplici, leggere e di impostazione tradizionale, che probabilmente risulteranno vagamente familiari a chiunque abbia giocato a D&D. Io ho giocato a SWN (che è molto carino), mentre questo l’ho solo letto, però mi è sembrato un ottimo gioco sullo stesso stile. A differenza di Stars Without Numbers, non è gratuito. La maggior parte delle pagine contiene tabelle casuali, consigli e idee, per cui è un prodotto che può risultare utilissimo in qualunque campagna post-apocalittica. Potete comprarlo qui.

Barbarians of the Aftermath. Questo è una sorta di espansione per Barbarians of Lemuria, che è un gioco rules-light, abbastanza tradizionale, pensato per lo Sword & Sorcery. Il sistema è semplice ed elegante. Questo supplemento contiene regole supplementari per giocare in una ambientazione post-apocalittica: carriere per i personaggi, equipaggiamento, mostri, etc. Un po’ come Other Dust, anche BotA contiene tabelle casuali in abbondanza, ed è un po’ a metà tra un toolbox e una miniera di spunti ed idee – dunque si tratta di un supplemento che potrebbe essere utile anche per altri gdr. Lo trovate qui.

Gamma World. Un classicone. È stato uno dei primi gdr post-apocalittici (1978), e forse uno di quelli di maggior successo. Il sistema è sempre rimasto molto vicino a D&D: il gioco ha avuto diverse edizioni, che tendenzialmente sono andate di pari passo con le regole di D&D. L’ultima edizione (7e) è del 2010 e utilizza una versione semplificata delle regole di D&D 4e. Gamma World è il gdr post-apocalittico “gonzo” per eccellenza: setting vagamente post-atomico con strambe creature mutanti, androidi, laser e artefatti tecnomagici. Si scarica qui.

Mutant Future. Gioco old school gratuito basato sulle regole di Labyrinth Lord (che è un retroclone di B/X D&D). A differenza di LL, Mutant Future non è un retroclone in senso stretto, dal momento che non replica fedelmente il regolamento di un gioco di ruolo del passato; si tratta semplicemente di un gioco originale che sfrutta le regole di LL. Pur non essendo un retroclone, è un gioco fortemente (molto fortemente!) ispirato a Gamma World, e cerca di ricalcarne lo stile gonzo. Il sistema è molto classico, ed ha i pro e contro di tutti i giochi old school. Nonostante tenda ad apprezzare i giochi OSR, questo non mi ha particolarmente entusiasmato, nel senso che mi pare manchi del fascino e della verve di Gamma World, pur ereditandone i limiti. Tuttavia vi incoraggio a darci un’occhiata e farvi la vostra idea – tanto è gratuito. Si trova qui.

Deadlands: Hell on Earth /Hell on Earth Reloaded. Deadlands (1996) era un gioco di ruolo “weird west” che combinava un ambientazione di tipo western con elementi horror e soprannaturali; il gioco è stato poi ripubblicato, sfruttando il sistema di Savage Worlds, come Deadlands: Reloaded (2006). Deadlands: Hell on Earth (1998) era invece un gioco di ruolo che sfruttava la stessa ambientazione, ma in un futuro post-apocalittico; anche questo gdr è stato più recentemente ripubblicato utilizzando le regole di Savage Worlds, con il nome di Deadlands: Hell on Earth Reloaded (2012). Si tratta di un tipo di ambientazione post-olocausto nucleare dove abbondano gli elementi soprannaturali e western; c’è una chiara influenza di Mad Max ma nel complesso è abbastanza originale. Deadlands: Hell on Earth; Hell on Earth Reloaded.

Mutant: Year Zero. Gioco di ruolo svedese (titolo originale Mutant: År Noll), abbastanza tradizionale e discendente di Mutant (1984). Riprende un po’ lo stile gonzo associato ai mutanti che è un classico per i giochi di ruolo fin da Gamma World, e molto evidente nel Mutant originale, ma rispetto a quest’ultimo adotta un tono molto più cupo e serioso. Dovrebbe essere abbastanza leggero in termini di regole ma non ne so molto. Questo ha anche il trailer. Il sito.

Flatpack: Fix the Future. Questo potrebbe essere il gdr più originale di questa lista – è un gioco che si autodefinisce  “un gioco post-apocalittico ottimistico”. Parla della (ri) costruzione di una nuova società sfruttando tecnologie pre-apocalisse. Non so dirvi molto altro perché non l’ho nemmeno mai letto. Lo trovate qui.

The Quiet Year. Gioco di narrazione (quindi non un gioco di ruolo vero e proprio) in cui si raccontano le vicende di una comunità post-apocalittica utilizzando un mazzo di 52 carte. Ciascuna carta rappresenta una settimana, e quindi il gioco finisce per raccontare che cosa succede in un anno. Ovviamente non è tradizionale.  Il sito.

octaNe. Gioco di narrazione che cerca di catturare lo spirito che avrebbe un film post-apocalittico di serie B. Parecchio gonzo anche questo – no, davvero, parecchio. Gonzo e bislacco e pieno di roba trash. Il sistema è decisamente non tradizionale – il che può piacere o non piacere. Sito.

Twilight 2000. Nell’originale Twilight 2000 (1984) i giocatori interpretavano militari americani sopravvissuti alla Terza Guerra Mondiale. Il sistema è molto tradizionale e mirava ad un certo realismo. Nel 2008 è stata pubblicata una terza edizione ribattezzata Twilight 2013. Il regolamento di quest’ultima edizione è piuttosto complesso, ma se siete curiosi lo trovate qui.

Degenesis: Rebirth. Gioco post-apocalittico tedesco, alla sua seconda edizione, recentemente tradotta in inglese. Ammetto di non saperne molto, ma il testo della prima edizione è rilasciato sotto creative commons. Da quel che so il sistema è tradizionale, molto anni ’90- primi anni 2000; sembra avere un setting molto dettagliato e molto curato. L’apocalisse è stata provocata da un asteroide a cui si è sovrapposta una infezione che ha decimato l’umanità. Ci sono anche i mostri. C’ha pure due trailer, tutti e due molto stilosi (1, 2), il che potrebbe farvi esclamare “NUOOOOOO FYGATAAAA” oppure “quale gvossolana tvovata commevciale”. Sito.

Numenera, Eclipse Phase, Rifts, Shadowrun – Questi sono giochi che aggiungo in quanto potrebbero essere considerati in varia misura post-apocalittici, dato che implicano la presenza di una qualche apocalisse nel passato del setting; tuttavia sono giochi che tendono ad avere il loro focus altrove, e che non rientrano nei canoni classici del genere. Di questi, Numenera è quello che probabilmente si avvicina di più al genere post-apocalittico, ma è essenzialmente un gdr science-fantasy. Eclipse Phase (rilasciato sotto CC, fatevi un favore e date un’occhiata ai PDF!) è uno sci-fi duro, transumanistico, dalle tinte horror. Rifts è… è… uh, complicato da classificare, e ci ricorda che tutte le classificazioni in generi distinti sono ad un certo punto artificiose. Shadowrun è essenzialmente cyberpunk.

I generici. Ovviamente niente vieta di utilizzare uno dei sistemi generici per il proprio gioco post-apocalittico. I principali candidati sono i soliti noti: Fate [SRD EN | IT] , Savage Worlds, Gurps.

 

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What are role playing games like?

A few days ago a friend of mine who doesn’t play tabletop RPGs asked me where to find written campaign reports (in Italian). A few questions later, I found out that he was looking for “descriptions” of gaming sessions – “you know, as if you were there”.

Campaign chronicles are as old as the hobby itself, and not that hard to find on the Internet. The Rythlondar campaign chronicles [1] are an excellent example straight from 1976. Campaign chronicles are usually written post hoc, with the purpose of documenting and recording the fictional events that occurred in the game.  You don’t have to search very hard to find several examples in Italian [2,3]. I have no idea why I’m talking about Italian stuff in a post in English, but… yeah, there it is.

Campaign chronicles don’t typically aim to convey the authentic “as-if-you-were-there” tabletop feel, as they may be edited or fictionalised to some degree. In fact, true session logs aren’t that common. The thing that comes closest to what my friend had in mind are the so-called”replays” [4].  Replays are very popular in Japan, but almost unheard of in the West. They are quite literally full transcripts of actual gaming sessions, even though they may be edited and re-written in order to make them more entertaining. When I say transcripts, I really mean it: in the typical replay you can read the actual lines of dialogue between GM and players, including table banter! As far as I understand, the main purpose of replays is entertainment, but they might also have an “educational” purpose (i.e. showcasing how a rpg works, which might be useful for beginners). R’lyeh Antique [5] is the only replay translated in English that I’m aware of. Replays are considerably popular in Japan, and some of them gave rise to multimedia franchises (like Record of Lodoss War [6]). An example of a Japanese-style replay originally written in English is The Broken Window ([7], Golden Sky Stories).

Actual Plays (AP) are somewhat similar to replays, and at the same time completely different. They were originally popularised on the forum The Forge [8] as written recaps of gaming sessions- but, unlike replays, they weren’t meant for entertainment, and they weren’t literal transcripts (usually). They were mostly meant as a self-reflection tool for players [9]. Basically you reconstructed the session after the game, dissecting and analysing it in order to better understand what worked, what didn’t, what could have been done differently, which rules were applied incorrectly…  In other words, an autopsy. APs were about game sessions that actually occurred, and included references to rules and possibly even to the surrounding social context, rather than conjectures or speculations about potential or imagined games – this is the reason why they were especially important as a self-reflection tool. Note, however, that APs weren’t necessarily detailed recaps of entire campaigns or entire game sessions. They could be “brief or long, detailed or sketchy“; and they could be “about the game as a whole across ten years of play, or about five isolated minutes of play“. The practice somewhat gained ground here in Italy, under several names (e.g. “Gioco concreto”, [10]), but there aren’t many examples outside of the communities dedicated to indie games.

More recently, the term Actual Play has been used to refer to a different phenomenon, closer to Japan’s replays than to The Forge’s “original” APs. Namely, in the last few years a lot of “actual play” videos or podcasts have been popping up all over the internet; these videos/podcasts consists of plain recording of gaming sessions. They are similar in scope to replays, in that they are meant mainly for entertainment. The main difference lies in the fact that they are recordings rather than transcripts. Some, like Wil Wheaton’s Titansgrave [11], or How We Roll’s podcasts [12], are more or less heavily edited and produced (HowWeRoll’s Call of Cthulhu scenarios are particularly impressive in that regard: they’re almost like a radio drama [13]). A simple search on google turns up a lot of these actual play videos and podcasts.

When it comes to actual play videos/podcasts, the Italian scene is not as rich and varied as the English one. DiceGames Italia [14] is the most active youtube channel, while Fumble [15] and GDR Unplugged [16] seem the most active audio podcast. Everything else consists of unreliable/irregular podcasts and channels.

Play-by-forum/play-by-post games are a totally different beast, but they might still be relevant for someone looking for written reports of gaming sessions reasonably close to the live experience. PbF/PbP are roleplaying games played on forums instead of face to face, so the interaction happens mainly via text. They are similar to the live experience up to a certain point. Since on a PbF everything is slower, the dynamics involved in the game tend to be a bit different – it’s more like collaborative storytelling. There are several variants (e.g. play-by-chat, play-by-email) but they are more or less the same thing – the main thing that changes is the medium. They are relatively easy to find, even in Italian [17].

 

Worlds in Peril – Actual Play di un one shot che non ha funzionato del tutto

L’altra sera ho approfittato di una interruzione del D&D 5E settimanale per provare Worlds in Peril, gioco powered by the Apocalypse a tema supereroistico . Non sono solito scrivere actual play, ma poiché ho avuto l’impressione che ci siano state delle cose che non hanno funzionato bene, ho deciso di riprendere questa vecchia tradizione. Per chi non sa cosa sia, si tratta di scrivere un resoconto della sessione come strumento di autoriflessione.

 

Questa sessione era pensata come one shot. Abbiamo iniziato creando i personaggi. A causa dei tempi stretti, l’intera operazione è risultata un po’ frettolosa. Purtroppo non ho potuto dedicare alle spiegazioni il tempo che avrei voluto, né c’è stato modo di fare molte domande durante la fase di world building.

È emerso che il gruppo è costituito da un team informale noto, per adesso, come The Heroes. Non si tratta ancora di un team rodato, ma di 4 supereroi che hanno già risolto insieme qualche minaccia, e che dunque collaborano da relativamente poco tempo.

Il team è composto da (mi dispiace, non mi ricordo proprio i drive books):

Entropy – Lavora in una fabbrica di componenti elettronici; il suo potere fondamentale ha a che fare con il controllare la gravità. Origine: My Legacy. Ease of fitting in: Occasionally difficult.

The Statue – ricercatore universitario di Ematologia, ha il potere di controllare il proprio sangue (il nome deriva dal fatto che forma una sorta di armatura coprendosi di sangue, ricordando una statua). Origine: What I Carry. Ease of fitting in: Occasionally difficult.

H.S. – ex-delinquente, ora investigatore privato. Ha poteri psichici – principalmente lettura della mente e telecinesi. Origine: The Wake-Up Call. Ease of fitting in: Occasionally difficult.

 

Black Jack: famosa rockstar vagamente hair metal. Il suo potere fondamentale consiste nell’assorbire i poteri di chi uccide. Gli ho chiesto se avesse già ucciso qualcuno, ed eventualmente quali poteri gli avessero conferito le vittime, e abbiamo scoperto che aveva un sacco di roba (invisibilità, telecinesi, volare, controllare il tempo atmosferico, capacità di mutare il proprio corpo, assumere identità differenti). Ease of fitting in: Extremely hard to form lasting relationships.

È venuto fuori che la città dove loro vivono è New York, e che alcuni di loro hanno famiglia, mentre altri conducono un’esistenza molto più solitaria (es. Black Jack, che era anche l’eroe moralmente più ambiguo). I superpoteri non sono comunissimi nel mondo, ma non sono rari. Ci sono sempre stati, ma negli ultimi anni c’è stato un aumento dei “risvegli” a causa di eventi che non abbiamo definito nei dettagli. È emerso anche un villain, BlackHole, acerrimo nemico del padre di Entropy, su cui però il nostro eroe sapeva ben poco all’inizio del gioco.

Commenti 

Il primo errore è stato voler creare i personaggi lì per lì: avrei dovuto portare dei pregenerati, o almeno delle schede parzialmente compilate. Speravo ci sarebbero voluti sui 20 minuti, ma tra una cosa e l’altra ne abbiamo impiegati circa il doppio! La cosa era prevedibile, ed è stato ingenuo da parte mia essere così ottimista. Inoltre, questa creazione frettolosa dei personaggi è stata anche la fonte di errori che si sono rivelati più a valle nel gioco. In particolare, sarebbe stato necessario soffermarsi più tempo sulla formulazione e sulla definizione dei poteri, ma su questo tornerò dopo. Anche la parte di world building è stata insufficiente. Per esigenze di tempo, non ho potuto fare molte domande; questo tra l’altro è un errore che ho commesso anche le volte che ho giocato a Dungeon World (cioè, il fare troppe poche domande). Ai legami poteva essere dedicato più tempo.

La mia prep per la serata era abbastanza leggera, come richiedono le regole dei pbta. Avevo fantasticato un po’ per conto mio, e avevo tratteggiato a grandi linee qualche cattivo da inserire se ne avessi avuto bisogno. Mi sarebbe piaciuto mettere qualcosa con degli ostaggi. Quando è giunto il momento di iniziare, ho deciso che mi piaceva l’idea di un aereo di linea dirottato, con i passeggeri a bordo. Ho chiesto a ciascuno di loro dove fosse (c’era chi era al lavoro, chi si riprendeva da una sbornia, etc) e ho annunciato segni di una minaccia in arrivo. Lo schermo delle TV viene disturbato improvvisamente da scariche statiche, e i programmi sono interrotti da una trasmissione anomala: appare BlackHole, che chiede 50 milioni di dollari in contanti entro due ore. È a bordo di un aereo di linea, che è stato dirottato, e se le sue richieste non saranno esaudite si schianterà su New York con ben 4 bombe atomiche. (GO BIG OR GO HOME! Per dare maggiore urgenza, ho fatto letteralmente partire un timer sul mio cellulare, che ho messo al centro del tavolo)

Dopo gli iniziali momenti di sbigottimento, New York piomba nel caos più totale, mentre i suoi abitanti scappano a game levate dalla città, tra urla, pianti, macchine incolonnate che clacsonano come impazzite, gente che ammassa i suoi averi nella propria macchina, e così via. Gli eroi decidono di ritrovarsi al loro quartier generale informale, mentre i due eroi con famiglia sono tempestati di telefonate dalle loro rispettive consorti (“dove diavolo sei?!“).

 

Commento.

Qui è emersa una delle mie prime difficoltà a livello meccanico. Entropy ha deciso di raggiungere la moglie e la figlia a casa per rassicurarle. Ora, la moglie, Maria, che non sapeva dell’identità segreta di Jamie/Entropy, era chiaramente nel panico più completo, e realisticamente non avrebbe mai permesso che il marito se ne andasse non-si-sa-dove con 4 fottutissime bombe atomiche in viaggio verso New York. Ecco, qui sentivo che si sarebbe dovuta attivare una mossa (tipo, fosse stato Dungeon World avrei pensato a Parley, supponendo che il personaggio stesse introducendo una leva appropriata), ma nessuna sembrava appropriata alla situazione.  Lì per lì ho pensato anche a Take Down, ma leggendomi il trigger non mi pareva davvero che fosse la mossa giusta (“whenever you attempt to subdue an immediate threat…“).

Volevo risolvere rapidamente la scena, visto che eravamo molto in ritardo, per cui ho chiuso con la moglie che riluttante lascia andare Jamie/Entropy. Sento che avrei dovuto gestire la cosa in modo differente, in particolare facendo una mossa. Per esempio: tell them the requirements or consequences and ask. “Guarda, è troppo agitata, non la convincerai così. Se vuoi che ti lasci andare devi trattarla male, e ti becchi anche una condizione moderata“.

 

Dopo una rapida consultazione, i nostri decidono di recarsi alla torre di controllo dell’aeroporto per cercare di intercettare l’aereo dirottato. Dato il caos in giro per NY, decidono di andarci in volo. Entropy tenta di sfruttare il proprio controllo della gravità per portare tutti e quattro in volo. Purtroppo non ci riesce (mossa Push),  per cui gli eroi si ingegnano in altro modo (es. The Statue potenzia il proprio sangue per correre a velocità eccezionale).

La torre di controllo brulica di attività come un formicaio impazzito. Tutti cercano freneticamente di capire quale sia l’aereo coinvolto, ma sembra tutto a posto: gli aerei sono tutti sulla loro traiettoria, in orario, e rispondono tutti ai tentativi di comunicazione. Insomma, sembra tutto normale. (spoiler: io stavo pensando offscreen, e avevo determinato che i cattivoni stavano inviando un falso segnale alla torre di controllo, costruito ad arte, con una sorta di attacco man-in-the-middle)

The Statue si mette a fare l’hacker al computer, innescando Gather Intel (su Investigate, visto che mi sembrava un’operazione di ricerca) e analizzando i segnali inviati dagli aerei scopre che uno sembra contraffatto (la domanda era: “Dove posso trovare BlackHole?”). Ta-dan!

Commento

Non so se Examine sarebbe stata una mossa migliore (When you closely study a situation or person…) rispetto a Gather Intel (When your leads dry up, take to whatever avenues are open to you and roll...). Mi sembrava che effettivamente fossero senza alcun indizio, per cui ho optato per la seconda.

Abbiamo deciso che anche l’Esercito è presente alla torre di controllo. Sembrava plausibile visto che anche loro stanno cercando di capirci qualcosa. I nostri chiedono se possono procurarsi un aereo militare per raggiungere rapidamente l’aereo dirottato. Decido che la richiesta viene accolta, e descrivo brevemente come gli eroi raggiungano l’aereo a bordo di un veicolo militare super moderno, tipo uno Stealth.

Commento

Qui ho semplicemente detto “sì”. La richiesta mi sembrava ragionevole (sono supereroi, no?) e volevo arrivare rapidamente all’azione.

I nostri si trovano davanti uno spettacolo imponente: l’aereo di linea è avvolto in una sorta di imbracatura; sopra di esso, una specie di enorme aircraft/cargo metallico nero, che lo sta letteralmente trasportando.

Commento

Embrace the weird, outlandish, alien and fantastic fa parte della mia agenda.

I nostri si avvicinano all’aircraft nero, cercando di stabilire come avvicinarsi. Non mi ricordo esattamente perché, ma ad un certo punto ho stabilito che era il momento di fare una mossa, quindi ho mostrato segni di una minaccia in avvicinamento. Vengono avvistati da The Tower, uno dei villains a bordo dell’aircraft/cargo nero, che apre con un calcio uno sportello laterale e inizia a sparare verso l’aereo con un enorme mitragliatore (me lo sono immaginato come una sorta di Vulcan Raven con vistosi impianti cibernetici – è un punching bag). E sì, siamo in alta quota, ma in questo caso chissenefrega: stiamo riproducendo una storia tipo fumetto. Rule of cool, gente. (Comunque prima avevo detto che l’aereo volava particolarmente basso).

Entropy ferma i proiettili a mezz’aria grazie al controllo della gravità (mossa Push), evitando che l’aereo sia colpito. Black Jack invece sfrutta la capacità di trasformare il proprio corpo per allungare le braccia a dismisura e sbilanciare The Tower. Questo cade dall’aircraft, ma all’ultimo riesce ad appendersi con una sola mano ad un’ala dell’aereo di linea. H.S. lo toglie di mezzo staccandogli le dita dall’aereo con i propri poteri telecinetici. The Tower cade nel vuoto e non rappresenta più un problema per i nostri eroi.

 

Commenti

Una cosa che ho decisamente sbagliato è stata l’applicazione delle mosse, che è avvenuta in modo incoerente. Credo che questo sia stato causato principalmente dalla mia scarsa familiarità con il sistema. Ho già giocato con altri pbta, ma non ho una enorme esperienza, e Worlds in Peril per qualche motivo mi ha creato difficoltà da questo punto di vista. In Worlds in Peril i poteri funzionano fornendoti fictional positioning (cioè, una giustificazione a livello di fiction) per attivare mosse come Take Down, Defy Danger etc. Quando un personaggio decide di sfruttare un suo potere per fare qualcosa, i casi sono due: o quella cosa che vuole fare è già scritta sulla scheda (e allora la fa e stop), oppure attiva la mossa Push e tenta di espandere il proprio repertorio di poteri (c’è anche un terzo caso: quello che vuole fare va al di là dei suoi poteri e/o non è compatibile con il suo profilo di poteri). Quando la mossa Push ha successo, il personaggio si è guadagnato il proprio fictional positioning. Tuttavia, se sta attivando una mossa con quello che sta facendo (es. Defy Danger o Take Down), deve comunque tirare per quest’ultima mossa – il successo è solo per Push, non si estende oltre. Purtroppo non sempre mi sono ricordato di farlo.

Per esempio, quando Entropy ha fermato i proiettili della mitragliatrice che stavano per colpire l’aereo, ho fatto tirare per Push, però poi mi sono dimenticato di far tirare per Serve and Protect (“When you stand in defense of someone or something when an imminent threat or danger befalls them…”). Questo per fortuna non è successo sistematicamente, ma è decisamente successo, e a posteriori penso che sia stata una delle principali ragioni per le quali mi è sembrato che il gioco non girasse.

La prossima volta che gioco devo assolutamente ricordare di far attivare le mosse in modo più coerente e sistematico.

Altra nota: The Tower non aveva raggiunto il proprio condition threshold quando è caduto nel vuoto (cioè tecnicamente non era morto; aveva ancora agency nella fiction). Tuttavia ho deciso di farlo cadere e toglierlo di mezzo perché aveva senso eliminarlo dalla scena data la fiction del gioco. Dato che comunque non aveva raggiunto il proprio condition threshold, se questo non fosse stato un one shot probabilmente avrei fatto sopravvivere The Tower, facendolo diventare un cattivo ricorrente.

Eliminata la scocciatura The Tower, Black Jack ed Entropy escono volando dal velivolo militare, e si avvicinano (sempre in volo) all’aereo di linea per controllare la situazione. I piloti sono morti, ma i passeggeri stanno bene per fortuna. Attraverso le finestre intravedono due membri del team dei cattivi all’interno.

Nel frattempo The Statue e H.S., rimasti a bordo del velivolo militare, hanno l’idea di introdursi nell’aircraft/cargo attraverso il portellone lasciato aperto da The Tower.

Commenti

Nota a me stesso: avrei dovuto far tirare un Defy Danger a Black Jack ed Entropy (il pericolo era quello di essere visti e attaccati da un paio di super cattivi all’interno, di cui adesso non ricordo il nome).

The Statue e H.S. cercano di lanciarsi dal loro aereo al portellone dell’aircraft che è rimasto aperto. The Statue proietta il proprio sangue, e lo usa per “agganciarsi” al portellone e passare da un’aereo all’altro, poi si gira per aiutare HS. Nel corso dell’operazione viene attaccato alle spalle da un individuo misterioso (io so che si tratta di Dark Moon, personaggio che fa parte del team dei cattivi). Riescono a respingere l’attacco, e Dark Moon si ritira rapidamente nei meandri dell’aircraft sperando di essere seguita, così da poter colpire nel momento più appropriato. I suoi poteri hanno a che fare principalmente con l’illusione ed il trasformismo: può, tra le altre cose, replicare perfettamente le sembianze di una persona. Usa i suoi poteri principalmente per confondere le vittime e coglierle alla sprovvista, facendo uso di tattiche tipo mordi-e-fuggi (motive: toy with and manipulate).

Entropy e Black Jack, dopo la loro ricognizione, decidono di riunirsi con gli altri due eroi all’interno dell’aircraft, passando dallo stesso sportello. I nostri avanzano all’interno dell’aircraft, e, giunti ad un bivio, si dividono così: The Statue e Black Jack vanno a sinistra, mentre H.S. ed Entropy vanno a destra.

I primi due subiscono un nuovo attacco da Dark Moon. Questa crea una figura illusoria in fondo al corridoio con funzione di esca, sfruttando materiale preso direttamente dalla mente di Black Jack. L’eroe cade nel tranello e attacca la figura illusoria: trasforma le braccia in tentacoli e tenta di avvinghiarla. Dark Moon, nascosta nelle ombre circostanti, approfitta della distrazione per coglierlo alle spalle. Nel fare questo, riprouce perfettamente le sembianze dello stesso Black Jack, sperando di confondere The Statue (rimasto poco più indietro) grazie anche alla confusione generata dalla colluttazione. Dopo qualche momento di incertezza, The Statue trova un nuovo modo di sfruttare i suoi poteri del sangue: “connettendosi” con il sangue di entrambi riesce a determinare qual è il vero Black Jack.

Gli altri due iniziano a scendere per una rampa di scale. H.S. tenta di sfruttare i propri poteri psichici per espandere la propria coscienza e sondare la presenza di altre menti nell’area. Anche qui mossa Push, che viene superata con un 7-9: H.S. riesce a percepire la presenza di un “altro” (è BlackHole!), ma anche l’altro percepisce lui! Questa è un’occasione d’oro per una mossa, e decido che BlackHole sfrutta i suoi poteri (manipolazione della luce e delle ombre) per creare un’area di oscurità completa attorno ai nostri. Fortunatamente gli eroi riescono ad orientarsi lo stesso grazie alle loro capacità (Entropy riesce ad usare delle onde gravitazionali come un sonar – e sì, se c’è qualcuno laureato in fisica tra i miei lettori, dopo questa boiata mi vorrà morto).

Commenti

Qui ho commesso gli stessi errori di prima. Ho fatto tirare per Push, ma non per le altre mosse che si stavano attivando, come Examine nel caso di H.S. (when you closely study a situation or person…) e Seize Control nel caso di Entropy (whenever you and another character struggle over a contested goal or objective… – in questo caso l’oggetto della contesa tra Entropy e BlackHole era l’orientamento degli eroi!)

Non sono nemmeno molto soddisfatto di come ho giocato Dark Moon: essendo un heavy hitter, avrei dovuto giocarla in modo più aggressivo e spettacolare (“A Heavy
Hitter should pose a major threat to the heroes and be able to hold their own against
a group. They should be memorable…“), invece la scena che ho creato è stata  un po’ fiacca e confusa. Non direi che sia stato un incontro memorabile, o che abbia rappresentato una grossa minaccia per loro. Farò meglio la prossima volta!

 

A questo punto decido di saltare alla scena finale perché si stava facendo tardi e purtroppo avevo esigenza di finire rapidamente. BlackHole, Entropy ed H.S. si scontrano in una sorta di stiva, a cui questi ultimi accedono dopo essersi in qualche modo orientati nell’oscurità. La faccio breve dato che non mi ricordo più molto bene cos’è successo: è stata una scena un po’ concitata, e tutti sono finiti in un momento o nell’altro con il culo per terra. BlackHole fa un classico monologo dove spiega il suo piano: i 50 milioni gli servivano per costruire un macchinario per concentrare la luce solare, da sfruttare per potenziare i propri poteri (essenzialmente manipolazione di luce e ombra). Dopo uno scambio di colpi con gli eroi, BlackHole materializza un raggio di luce intensissima stile laser,  e lo dirige contro Entropy, che cerca di rifletterlo verso il mittente sfruttando i suoi poteri (Seize Control).

Commenti

Tecnicamente qui ho barato. Entropy può controllare la gravità, che gli conferisce la capacità di influenzare la materia, ma il raggio laser è una radiazione elettromagnetica  coerente (forse qui mi riabilito con il laureato in fisica). Lì per lì sono stato molto indeciso, ma alla fine ha prevalso la rule of cool. Questa cosa dell’eroe che tenta di controllare il raggio laser dell’antagonista mi sembrava ganza, quindi ho detto “sì” e abbiamo tirato. Non so se ho fatto bene o meno.

Una cosa che mi è dispiaciuta è essere saltato allo scontro finale con il cattivo con soli 2 eroi su 4 presenti. Questa decisione, per quanto infelice, è stata dettata da esigenze di tempi stretti. Spero che non accada più.

Sconfitto, BlackHole si dà alla fuga. Decidiamo di chiudere qui.

Commenti in generale.

Io non sono rimasto molto soddisfatto della partita, almeno per come si è svolta dal lato master. Quando giochi “male” a D&D tavolta non si nota poi tantissimo; viceversa, quando stai giocando male ad un Powered by the Apocalypse si sente. Il gioco scorre male come una giuntura mal oliata. Invece quando stai giocando nel modo corretto te ne accorgi subito perché senti che il gioco gira bene e tutto fila liscio liscio. Ecco, io questa impressione non l’ho decisamente avuta l’altra sera.

Questo naturalmente non implica che il gioco sia stato un totale fallimento. Ad uno dei giocatori è piaciuto molto – penso più per il genere supereroistico che per la sessione in sé – mentre gli altri mi sono sembrati più tiepidi o non impressionati (e li capisco).

Questa sessione ha rivelato un po’ i miei limiti come game master. In parte ho il grosso handicap di non essere granché familiare con il genere, dato che non sono mai stato un grande consumatore di fumetti/film/serie TV di supereroi. Ne posso magari cogliere i trope più macroscopici, ma ho una percezione molto approssimativa del tutto. In parte ho anche faticato a mettere gli eroi in difficoltà. Penso che questo sia entro certi limiti normale (in fondo sono supereroi, no?), però penso che la maggior parte di questa difficoltà sia dipesa dalla mia inesperienza con i personaggi ad alto potere, e soprattutto dalla applicazione a tratti scorretta delle regole (es. non sempre mi sono ricordato di tenere conto delle condizioni, di far peggiorare le condizioni minori se non erano gestite nella fiction, e così via).

Una delle cose che non hanno funzionato troppo a livello meccanico, per colpa mia, sono stati proprio i poteri. Non ho seguito abbastanza i giocatori nella loro definizione, per cui i poteri nelle categorie Semplice, Difficile, Borderline etc sono stati definiti in modo troppo vago o in modo errato. Un esempio è dato dal personaggio Black Jack. Uno dei suoi poteri era l’Invisibilità (sul Power Summary), che nel suo Power Profile, figurava sotto “Simple” definita proprio così: invisibilità. Sono giunto alla conclusione che questo non è un buon modo di elencare i poteri sotto “Simple”, “Difficult”, “Borderline”, ma non ci ho fatto troppo caso finché non siamo entrati in gioco. La suddivisione in questi gradi di difficoltà serve per dare un’idea di cosa può fare il personaggio con i suoi poteri: scriverci “invisibilità” non dice molto, è troppo generico. Cioè, penso che il modo corretto di definire i poteri sia farlo in relazione a qualcosa, oppure descriverli in termini di cosa il personaggio può concretamente fare. Invece di invisibilità, avremmo probabilmente dovuto scrivere “non individuabile da comuni sentinelle e guardie, supera facilmente sistemi di sicurezza basati sul rilevamento ottico” oppure “non viene notato se sta immobile ed in disparte” o qualcosa del genere. Al contrario, esempi di poteri abbastanza ben definiti sono quelli di The Statue (“portare le proprie capacità fisiche a livello sovraolimpionico“) e uno dei poteri di H.S. (“Leggere i pensieri superficiali delle persone” – forse sarebbe stato ancora meglio “Leggere i pensieri superficiali delle persone non addestrate”). Quel sovraolimpionico è molto informativo, così come quel superficiali. Danno un’idea della scala di potere di questi personaggi.

In generale, avrei dovuto spendere del tempo facendo domande a ogni personaggio, cercando di definire bene i loro poteri, capire esattamente in cosa consistono e cosa possono e non possono fare (domande come: “Come mai ‘cercare tra i ricordi delle persone‘ per te è Difficile?”, “Quali sono le tue debolezze?”). Era mia responsabilità aiutare i giocatori a definire i personaggi ed i loro poteri, ma non l’ho fatto a sufficienza ed il gioco ne ha risentito pesantemente. In generale, per la prossima volta devo riflettere bene su come definire i poteri e assicurarmi che siano formulati in modo corretto.

Un’altra cosa che non ha funzionato tantissimo è stato il bilanciamento tra supereroi. Black Jack era il supereroe con i superpoteri più ampi e più potenti, ma era anche il supereroe con meno legami, mentre gli altri avevano tutti 6 Bond Points extra. Questo normalmente è un fattore di bilanciamento (bruciando i legami i supereroi possono ottenere successi automatici) ma solo un personaggio ha bruciato un legame durante la sessione. In parte questo è colpa mia, perché avrei dovuto ricordare ai giocatori della possibilità di bruciare i legami. In più, con il fatto che a volte ho “saltato” il tiro di alcune mosse (vedi il discorso di Push, poco sopra) ho avvantaggiato ingiustamente i personaggi con i poteri più ampi e generici.

Una mossa che non mi piace molto è Take Down. Quel doversi soffermare per decidere tra Impose a ConditionTake away an Advantage, Force a change of locationReduce the size of a mob by 1Take no harm in the doing mi è sembrato interrompere il flusso naturale del gioco. Quello che mi dà fastidio è soprattutto il fatto che devi scegliere *dopo* aver tirato (quindi dopo fatto qualcosa che comunque attivava la mossa). Mi sembra che si crei una sorta di “interruzione” nella fiction del gioco. Non saprei spiegare esattamente perché, ma non mi piace.

In definitiva, darei alla sessione il voto complessivo di 5/10. Mi sono reso conto di alcuni miei limiti e di alcuni errori grossolani nell’applicazione delle regole. A suo modo è stata comunque una sessione istruttiva perché mi ha aiutato a rendermi conto di alcuni miei limiti. Mi piacerebbe rigiocarci di nuovo; se succederà, cercherò di trarre una lezione dalla sessione dell’altra sera e prevenire gli errori commessi.

 

I giochi di ruolo e la storia: lo spiegone

Ultimamente mi sono ritrovato a scrivere, in contesti diversi, di alcuni argomenti in apparenza disparati, ma che in realtà sono piuttosto legati l’uno all’altro. Questo potrebbe essere successo per caso, ma anche perché involontariamente tendevo a portare questi argomenti nelle discussioni. Sia come sia, ho deciso di scrivere un unico post coerente i miei pensieri su questa roba – riutilizzando in parte cose che ho già scritto (per fare prima).

Warning: è LUNGO.

Sommario

 

La storia che non c’era

Verso la metà degli anni ’70, due tizi chiamati Gary Gygax e Dave Arneson misero assieme le loro idee  e crearono Dungeons & Dragons, il primo gioco di ruolo. Gygax contribuì attraverso le regole di Chainmail, un wargame medioevale con elementi fantasy (molto inusuale per l’epoca) creato traendo ispirazione da idee che circolavano all’epoca tra gli appassionati di wargaming. Arneson fu quello che innestò il concetto di roleplaying vero e proprio sulle regole di Gygax, trasformando Chainmail nel primo gioco di ruolo in assoluto. Il successo di questo strano gioco innovativo fu enorme, e D&D si diffuse rapidamente negli USA attraverso il passaparola.

In questi primi anni, il gioco di ruolo era in fase embrionale, e abbastanza diverso da come siamo abituati a pensarlo oggi. (Notare che io non ero nemmeno nato allora – queste note storiche sono una mia ricostruzione basata su fonti, non un resoconto della mia esperienza) Tanto per cominciare, era probabilmente giocato in modo simile a come oggi giocheremmo un boardgame. Il focus del gioco era il dungeon crawl o l’esplorazione di un’area: i personaggi tipicamente esploravano un dungeon con lo scopo di recuperare il tesoro, ammazzando o meno dei mostri nel processo. Poi c’erano parecchi più giocatori. Un documento affascinante è contenuto in questo PDF di 80 pagine, che dettaglia una campagna di D&D nei primi anni ’70, Rythlondar. Si può vedere che ciascuna spedizione nel dungeon aveva 7-12 giocatori, con tassi di mortalità altissimi per gli standard odierni. Inoltre il gioco aveva aspetti competitivi: c’erano ad esempio tornei di D&D, con vere e proprie condizioni di vittoria. C’era anche un rapporto diverso tra GM e giocatori, fatto più di antagonismo che di collaborazione. Questo rapporto era parzialmente basato sull’idea che il GM fosse una sorta di signore assoluto del gioco, e fosse quasi in competizione con i giocatori:

“As the DM, you have to prove in every game that you are still the best. This book is dedicated to helping to assure that you are.” –  Dungeon Master’s Guide di AD&D 1e (1979)

All’epoca non c’era nemmeno l’idea che i personaggi fossero “eroi”/”protagonisti” di una storia, o che i combattimenti dovessero essere “bilanciati”, o altra roba che oggi è data abbastanza per scontata: i combattimenti erano brutali, mentre i personaggi erano spazzatura, non contavano niente, e morivano come mosche. (disclaimer: a me piace abbastanza questo stile di gioco) Venti anni più tardi sarebbe partito un movimento di player empowerment che avrebbe riequilibrato il rapporto GM-giocatori, promuovendo l’idea che i personaggi dei giocatori sono eroi/special snowflake/protagonisti di una storia. In certi casi questo riequilibrio si sarebbe spinto fino a strappare il controllo narrativo dalle mani del DM, per conferirlo ai giocatori.

 Le avventure del D&D degli anni ’70 seguivano questo modello di gioco. Partivano tutte da premesse simili (i personaggi sono avventurieri alla ricerca di fama e ricchezze/c’è un oggetto o una persona da recuperare/etc), e consistevano in luoghi da esplorare – dungeon o zone selvagge. Il concetto di una storia o una trama era sostanzialmente sconosciuto, e lo sarebbe stato fino alla fine degli anni ’70. Per esempio, la prima avventura vera e propria per D&D, Palace of the Vampire Queen (1976) era un megadungeon. Idem per molte avventure storiche di quegli anni: In Search of the Unknown (1978), Expedition to the Barrier Peaks (pubblicata nel 1980 ma concepita nel 1976), o  The Lost Caverns of Tsojconth (concepita nel 1976 e poi pubblicata, in versione espansa, nel 1982).

L’idea che in una avventura ci potesse essere una trama si è sviluppata gradualmente. Uno dei primi esempi è stato il ciclo di avventure iniziate con la serie G1: Steading of the Hill Giant Chief, G2: Glacial Rift of the Frost Giant Jarl, e G3: Hall of the Fire Giant King (1978), ripubblicate poi come G1-2-3:  Against the Giants. In questi moduli ancora non c’era una storia: i singoli moduli erano sempre i soliti dungeon da esplorare, lo standard per i moduli dell’epoca; però c’era una sorta di trama di fondo che collegava i tre moduli tra loro e faceva da (esile) filo conduttore. Queste tre avventure furono poi ripubblicate, insieme ad altre, in un unico “supermodulo” (oggi diremmo: adventure path) col nome di GDQ1-7: Queen of the Spiders. Questo supermodulo univa la serie G1-2-3, la serie D (D1 Descent into the Depths of the Earth; D2: Shrine of the Kuo-ToaD3 Vault of the Drow) e Q1: Queen of the Demonweb Pits. Questo ciclo di avventure comunque non era niente di rivoluzionario: c’era sì una trama rudimentale che collegava le varie avventure tra loro in modo che la loro successione avesse un senso, ma le avventure in sé erano sempre i soliti dungeon crawl.

Notare che questo focus sul dungeon crawl non rendeva automaticamente le avventure brutte o noioseGDQ1-7 è stata votata nel 2004 come la più bella avventura di D&D mai pubblicata.

A breve, questo non sarebbe più stato vero.

Arriva la storia nei GdR

Entrano in scena Tracy e Laura Hickman.

Tracy e Laura Hickman sono una coppia di autori (Tracy è un uomo). Tracy Hickman è famoso per aver scritto insieme a Margaret Weis i romanzi di Dragonlance; in più, ha scritto (con o senza Laura) diversi moduli per D&D, tra i quali la celeberrima I6: Ravenloft.

I coniugi Hickman hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella storia dei giochi di ruolo: sono gli autori dei moduli originali di Dragonlance, il primo dei quali fu DL1: Dragons of Despair. Era il 1984, e da allora niente fu più la stessa cosa.

L’elemento rivoluzionario che i moduli di Dragonlance introdussero, cambiando per sempre il modo in cui i giochi di ruolo erano visti, era in realtà molto semplice, e probabilmente sapete già di che si tratta.

I moduli di Dragonlance avevano una storia.

Intendo una trama vera e propria, come quella di un libro o un film. Questo elemento oggi non sembra niente di speciale, ma per l’epoca fu una rivoluzione. Immaginate  giocatori di D&D per i quali “avventura” era stato fino a quel momento sinonimo di “dungeon crawl” – e immaginare di dare a questi giocatori un modulo che non riproponeva il solito dungeon, ma una storia emozionante, come quella di un libro. La gente rimase folgorata.

I moduli di Dragonlance furono uno dei grossi punti di rottura nella storia di D&D e più in generale dei gdr: introdussero l’idea che ci potesse essere una trama in un gioco di ruolo.

La seconda edizione di AD&D (1989) abbracciò completamente questa nuova prospettiva: le regole erano rimaste molto simili a quelle di AD&D 1e, ma nei manuali c’era una nuova enfasi sulla storia. Ci fu uno stacco molto forte tra le avventure pubblicate nell’era pre-AD&D 2e e quelle del periodo post-AD&D 2e, ricordate per le loro ricche trame, così come per l’imbarazzante railroading che promuovevano (ci torneremo dopo). Badate che questa non è archeologia – questo è un trend che continua tutt’ora.

Devo dire che effettivamente, nella mia esperienza, i giocatori che tendono più facilmente a liquidare il dungeon crawl come un tipo di gioco “meno nobile” o “inferiore” sono proprio i giocatori figli degli anni ’80 e di AD&D 2e – che, allo stesso tempo, sono quelli che più frequentemente tendono a ritenere il railroading un metodo accettabile di fare il GM. Questo ovviamente è solo un aneddoto, e non pretendo di dimostrare niente. Tuttavia, non posso fare a meno di notare che in Italia D&D arriva nel 1985, quando Editrice Giochi pubblicò la prima traduzione italiana del Basic, a cura di Giovanni Ingellis.

Sarò onesto: a dire il vero non fu tutta colpa di Dragonlance. C’era comunque aria di cambiamento in quegli anni. Per esempio, qualche anno prima di Dragonlance, nel 1981, fu pubblicato Call of Cthulhu, che contribuì a cambiare il modo in cui i giochi di ruolo erano visti. Non solo adattò il gdr ad un nuovo genere, quello dell’horror, ma fu anche un gioco che cambiava il classico concetto di avventura dall’esplorazione di un dungeon alla risoluzione di un mistero. Tra il 1980 ed il 1982 fu rilasciata la trilogia di Zork, uno dei primi giochi per computer con qualcosa che assomigliasse ad una storia (sebbene abbastanza rudimentale). Nel 1985 venne pubblicato Pendragon, un altro gioco di ruolo piuttosto story-focused per l’epoca. Insomma, le cose stavano cambiando, e probabilmente sarebbero cambiate lo stesso anche senza quei fatidici moduli dei coniugi Hickman. Vorrei anche sottolineare che questo cambiamento non è stato improvviso, come può forse sembrare leggendo questo post; l’introduzione della storia è stata un processo graduale. Il modulo I6: Ravenloft (1983) era sì un enorme dungeon, ma anche lì c’era una specie di storia che faceva da sfondo. Tuttavia, oggi ricordiamo i moduli di Dragonlance come lo spartiacque tra il vecchio modo di concepire il gdr, ed un nuovo modo, in cui la storia era in primo piano.

A questo proposito, ci sono due gruppi di persone che arriveranno ad odiare questo nuovo modo di concepire il gdr, per ragioni opposte. Uno di questi due gruppi lo incontreremo più avanti, tra una quindicina d’anni (siamo sempre a metà degli anni ’80) – ma l’altro possiamo presentarlo adesso. Sto parlando dei fan del D&D delle origini, il D&D dei dungeon crawl senza storia. Questi fan vissero la nuova attenzione alla storia come un tradimento dello spirito originario di D&D, guardando i moduli di Dragonlance, il focus sulla storia, e le nuove edizioni di D&D con sospetto o aperto disprezzo. Questi giocatori talvolta si autodefiniscono grognard. Alcuni sono vecchi wargamer, mentre altri sono semplicemente giocatori appartenenti alla “vecchia guardia”: giocatori che continuano a ritenere le vecchie edizioni, e lo spirito originario del gioco che le contraddistingue, come l’epoca d’oro di D&D. Sono giocatori che rifiutano l’idea che si giochi di ruolo per raccontare una storia, in contrapposizione ai giocatori “new school”, e che spesso guardano con disprezzo certi elementi del fenomeno del player empowerment.

Negli ultimi anni (soprattutto a partire dal 2008/2009) c’è stato un rinnovato interesse per il modo di giocare della “vecchia guardia”, che si è consolidato in un movimento/scuola di pensiero noto come OSRL’acronimo è definito in maniera imprecisa, ma la maggior parte delle persone legate all’OSR vi diranno che sta per Old School Revival, oppure Old School Renaissance. In pratica, il termine è oggi utilizzato per indicare un gruppo abbastanza eterogeneo di gdr e la ‘scuola di pensiero’ ad essi collegata, il cui comune denominatore è il rifarsi, sia come regolamenti che come filosofia di gioco, alle vecchie edizioni di D&D.

Ecco: nell’ambito dell’OSR, i moduli di Dragonlance sono visti come una disgrazia. Grognardia (fino al 2012 uno dei blog più influenti del movimento OSR), ricorda Dragonlance as one of the key moments when D&D lost its soul“; in un altro post, James scrive:

Dragonlance didn’t ruin everything, but it did exert a baleful influence over the development not just of D&D but also roleplaying in general.

RPGPundit, un blogger abbastanza controverso e legato al movimento OSR, racconta di quando l’autore di un modulo OSR reagì piuttosto aspramente ad una sua recensione negativa:

The author (…) responded (…) that I didn’t get it [il suo modulo] because I “wasn’t a true old-schooler”; and then he used the absolute worst insult any OSR-guy could probably give: he called me a Dragonlance fan.

Ma insomma, questa “storia” di cui parli… che roba è alla fine?

Questo è un momento buono come un altro per parlare un attimo di questa famosa “storia” che sarebbe entrata a far parte della cultura del gdr a partire dalla metà degli anni ’80.

In effetti uno dei problemi nel parlare di questa roba è che “storia” è un termine impreciso, e persone diverse intendono cose diverse.

Certo, certo, è vero – la storia, in senso lato, c’è sempre. È tutto ciò che succede in gioco. In senso lato, anche un dungeon crawl finisce in qualche modo per avere una storia. In un dungeon crawl succedono delle cose, e alla fine è possibile ricostruire una sequenza di eventi coerente. “Siamo scesi al secondo livello del dungeon, abbiamo ammazzato tre goblin, e Bob il Guerriero è stato fritto da una trappola”.

Però in questo post, con storia, intendo qualcosa di più di una sequenza di eventi coerente – intendo una storia appassionante, cioè una storia in grado di appagare dal punto di vista drammatico; una sequenza di eventi in game in grado di essere appassionante e interessante, come le trame che si sviluppano nei libri, nei film o nei fumetti. Una storia di questo tipo solitamente ha una struttura o comunque un arco narrativo: un inizio (un problema, un conflitto, un dramma), uno svolgimento, e una conclusione. Probabilmente ha anche elementi in grado di farti venire voglia di vedere come va a finire (non so – colpi di scena, misteri che vengono svelati pian piano…).

Ovviamente voi potreste intendere un’altra cosa ancora per “storia”, e va benissimo. Però in questo post quando parlo di storia, parlo di quella roba lì sopra. Quindi se per voi la storia è un’altra cosa, potreste non essere d’accordo con le mie considerazioni. Va benissimo.

Ora, in un gioco di ruolo tradizionale, ci sono due modi fondamentali per avere una storia appassionante. Uno è avere la storia appassionante già scritta, e l’altro è improvvisarla.

A prescindere dall’approccio che si preferisce, nei giochi tradizionali è tipicamente possibile un gioco di tipo immersivo, in cui il giocatore può vivere una storia in prima persona, esercitando una influenza sullo sviluppo della stessa paragonabile a quella che potrebbe esercitare una persona reale nello sviluppo della propria vita. In pratica, il giocatore ha controllo esclusivamente sulle azioni del proprio personaggio, ma non, ad esempio, sull’ambiente o su i PNG. Dopo vedremo quali sono i gdr “non tradizionali”, il cui approccio è molto diverso.

Avere la storia già scritta

L’approccio “storia appassionante già scritta” è quella che adottano molti moduli pubblicati a partire dall’era di AD&D 2e fino ad oggi (es. molti Adventure Path per Pathfinder). Il processo è più o meno lo stesso, sia che la storia appassionante venga tratta da un’avventura pubblicata, sia che la scriva il DM di sua mano: c’è una serie di eventi che si verificano in successione, in modo più o meno lineare. La storia è appassionante perché gli eventi prestabiliti fanno sì che lo sia.

Esempio banale: un vecchio misterioso si avvicina ai personaggi e chiede loro di recuperare la Spada Infuocata dalla Tomba del Guerriero Misterioso prima che se ne impadronisca Lord Morte, il Necromante Oscuro. I personaggi accettano. I personaggi recuperano la Spada e tornano dal vecchio misterioso. Ma, attenzione! C’è un colpo di scena! Il vecchio misterioso è in realtà Lord Morte sotto mentite spoglie! Dopo un monologo ad effetto, Lord Morte fugge con la Spada. Nella prossima avventura i personaggi dovranno inseguirlo! Zan zan zan!

Questa trama nella sua semplicità è interessante – c’è un colpo di scena. Mi immagino il DM che si sfrega le mani tutto soddisfatto, gongolando al pensiero della faccia che faranno i giocatori quando giocheranno alla sua fantastica storia.

C’è però un grosso, grossissimo problema con questo approccio. In un libro, lo scrittore è in grado di produrre una storia interessante perché controlla contemporaneamente protagonisti, antagonisti, personaggi secondari e tutto quello che succede.

In un gdr non funziona così. Non dovrebbe funzionare così. In un gdr, se il DM vuole produrre la storia interessante, ha un grosso ostacolo davanti a sé. Si ritrova a essere uno scrittore con le mani legate, che non controlla i protagonisti della sua storia.

La storia di cui sopra è fragile, come quasi tutte le storie prestabilite a tavolino. Cosa succede se i personaggi decidono di tenersi la Spada Infuocata, o di venderla, invece di riportarla al vecchio misterioso? Cosa succede se uno dei giocatori in qualche modo scopre, per esempio, che il vecchio misterioso ha un allineamento malvagio e si insospettisce? Ve lo dico io: la storia salta. Tutta la bellissima storia concepita dal DM a casa sua, dopo ore di faticosa preparazione, crolla come un castello di carte. C’è un modo di dire nella comunità dei gdr che più o meno recita: “no plan survives first contact with the players“. Allude al fatto che qualunque trama predisposta a tavolino dal DM finirà per crollare rovinosamente una volta arrivata al tavolo, perché i giocatori faranno qualcosa al di fuori dei suoi piani.

Il povero DM quindi si trova ad avere un problema. Vuole inserire la sua storia appassionante nella campagna; ma la sua storia, essendo predeterminata, non reggerà mai al tavolo di gioco, a causa dell’imprevedibilità legata alla libertà d’azione dei giocatori. (Notare che questo problema è direttamente o indirettamente la conseguenza di idee che risalgono alla metà-fine degli anni ’80, quando Dragonlance ha messo in testa alla gente l’idea sciagurata che per fare bene il DM uno deve raccontare una storia interessante come quella di un film o un libro.)

Come rispondere a questo problema?

Ci sono diverse reazioni possibili. Alcune di queste reazioni sono sane, altre sono patologiche. Le risposte patologiche più comuni sono barare e railroadare i giocatori.

Il Railroading

Il railroading (da railroads, che letteralmente sono i binari del treno) è un fenomeno che avviene quando un evento del gioco ha un outcome predeterminato – cioè un esito stabilito a priori, a prescindere delle azioni dei giocatori. Il DM annulla la libertà d’azione dei giocatori, forzando quello che succede nel gioco, al fine di far andare le cose come vuole lui.

Che vuol dire in pratica? Diciamo che in gioco si verifica una situazione X. Per esempio:  i personaggi sono nella principale cittadina del regno, e per andare avanti con la storia, devono parlare con il Re che si trova nel palazzo reale. Questa di per sé è una situazione aperta: la storia preparata dal DM prevede che i giocatori parlino col Re, ma i giocatori potrebbero fare potenzialmente qualunque cosa, incluso non parlarci affatto. Il railroading avviene quando il DM ha stabilito come questa situazione andrà a finire, e impone l’esito da lui deciso a prescindere da cosa fanno o non fanno i giocatori.

Giocatore: “No, io con il Re non ci voglio parlare! Esco dalla città e vado a cogliere le margherite nei campi.”

DM: “No, non puoi. Hanno chiuso le porte e non fanno più passare nessuno.”

Qualcuno potrebbe dire “eh vabbé, ma questo DM  è un pivellino! Un bravo DM asseconda il giocatore e trova il modo di farlo parlare lo stesso con il re.”

Per esempio:

Giocatore: “No, io con il Re non ci voglio parlare! Esco dalla città e vado a cogliere le margherite nei campi.”

DM: “Ok. Vai fuori dalla città e raccogli 3d6 margherite. Dopo un paio d’ore, vedi il Re che sta uscendo a cavallo dalla città. Appena ti vede si dirige verso di te.”

Ecco: qui c’è un equivoco. Non c’è molta differenza tra il railroading spudorato del primo esempio e il railroading occulto del secondo esempio (talvolta chiamato illusionismo). Non è che quello del secondo esempio è un DM più bravo, o un DM più esperto.

Il DM qui ha solo riaggiustato la sua trama lineare (evento A -> evento B -> evento C) in modo da dare l’impressione che l’avventura non sia sui binari, ma è un cambiamento cosmetico. In realtà è più o meno la stessa cosa: il DM ha deciso che le cose devono andare in un certo modo, e qualunque cosa voglia fare il giocatore, il DM trova il modo di far succedere le cose che voleva. L’unica differenza è che che se va tutto bene il giocatore non se ne accorge. E i giocatori si accorgono di questi trucchetti molto più spesso di quanto il DM pensi.

Diciamo che ci sono tre percorsi che conducono dal Luogo A al Luogo B. Se i tre percorsi sono esattamente uguali, ed i personaggi subiscono la stessa imboscata indipendentemente dal percorso preso, con gli stessi mostri, etc. etc… beh, non è molto diverso dalla situazione in cui c’è un solo percorso obbligato. Dai l’illusione della scelta, ma è solo una finzione.

Il railroading (spudorato od occulto) è in genere malvisto perché annulla la libertà d’azione e di scelta dei giocatori, visto che quello che fanno o non fanno non ha più alcuna conseguenza né alcun impatto su quello che succede. Se rimuovi la libertà d’azione togli una delle cose fondamentali che distinguono il gdr da altre forme passive di intrattenimento (cinema, teatro, libri, fumetto, etc): la capacità di influenzare ciò che succede. Il gioco di ruolo diventa un’esperienza passiva, dove il fruitore esperisce una storia predeterminata da altri. A quel punto, tanto vale rimettere i dadi nello zaino e stare a sentire il GM che ti legge un racconto scritto da lui, no?

Tuttavia, se è vero che il railroading è generalmente malvisto, ci sono dei casi in cui può funzionare e può essere desiderabile – cioè quando è funzionale al divertimento del gruppo. In generale, quando si gioca di ruolo la priorità è divertirsi – finché uno si diverte, sta giocando bene. Se uno gioca di ruolo senza divertirsi, fategli i complimenti: è riuscito a scoprire l’unico vero modo per farlo male!

Ecco, alcuni giocatori preferiscono avere una storia da cui farsi guidare. Magari vogliono esperire una storia appassionante predeterminata in modo semi-passivo, senza dover fare troppe scelte. Si aspettano una storia, e fanno del loro meglio per seguirla; quando non la seguono, si aspettano che il DM li rimetta sulla strada. Questo è talvolta chiamato partecipazionismo, nel senso che i giocatori partecipano volontariamente alla storia creata dal DM (anziché subirla). C’è partecipazionismo, se vogliamo usare questo termine, quando i giocatori: a) sono consapevoli che c’è una storia prestabilita da seguire; b) sono d’accordo che ci sia questa storia; c) riconoscono che gestire la storia è responsabilità del DM; e infine d) sono d’accordo che il DM faccia il necessario per far sì che la storia vada avanti.

Questo, se ci pensate, è quello che succede, per esempio, quando i personaggi accettano il lavoro proposto loro dallo straniero misterioso alla locanda. Non c’è alcun motivo sensato per cui delle persone sane di mente debbano accettare un incarico da un tizio mai visto e conosciuto – però in genere i personaggi accettano il lavoro senza tante storie, perché sanno che l’avventura “è da quella parte”.

Ora, questa situazione va bene. La situazione che viene criticata è quando il DM pensa di sapere cos’è meglio per il divertimento del gruppo senza consultarsi prima con i giocatori, per cui decide autonomamente di scrivere la storia predeterminata senza che nessuno glielo abbia chiesto. Se invece i giocatori esprimono il desiderio di avere la storia predeterminata, è un altro paio di maniche. In certi gruppi storici, che giocano insieme da anni e anni, questo consenso può essere implicito: il DM ormai conosce i giocatori e sa cosa li diverte, mentre i giocatori conoscono il DM e sono d’accordo con il suo stile. Tuttavia, a meno che non rientriate in questo caso, è meglio se questi aspetti vengono decisi dall’intero gruppo prima dell’inizio della campagna (“ragazzi, avevo in mente una campagna con una storia ambientata in X che sarà così e cosà, vi va bene?”).

Barare

Barare non ha bisogno di molta discussione: stai barando quando ignori arbitrariamente una regola, o il risultato di un dado, perché non ti piace la situazione a cui quella regola o quel tiro di dado ti porterebbero, e questo avviene in segreto, senza che i giocatori ne siano al corrente. La maggior parte dei DM che barano lo fanno con buone intenzioni: salvare personaggi che morirebbero per tiri sfortunati, non penalizzare serate sfortunate con i dadi, ignorare tiri non utili alla storia o al divertimento, far sì che il combattimento con il boss non finisca in un solo round, e così via. In generale, nella maggior parte dei casi i DM che barano lo fanno per esigenze di storia. Ma questo non vuol dire che sia una buona abitudine.

Il punto è che se hai bisogno di barare per ottenere quello che vuoi da un sistema, c’è qualche problema di fondo – evidentemente vuoi fare qualcosa, ma le regole ti remano contro e portano a risultati che non ti piacciono. E se non ti piace un risultato, perché usare delle regole che ti portano a quel risultato? Le risposte sane a questa situazione sono a) adattare le tue aspettative al sistema; b) modificare il sistema in modo che venga incontro alle tue aspettative (= house rules); c) se il compito precedente è troppo laborioso, al limite cambiare sistema. Barare è una risposta al problema forse più semplice, ma è patologica perché implica ingannare gli altri giocatori (sì, se tiri dei dadi e poi ignori il risultato, li stai ingannando).

Per chi bara, il dado finisce per divenire una cosa cosmetica – tanto se le cose non vanno come avevi pianificato, lo ignori. E se ignori i tiri di dado quando ti fa comodo, non capisco come mai stai tirando dei dadi. “Se faccio >10 col dado accetto il risultato, se faccio meno non è funzionale alla storia per cui facciamo finta di aver fatto >10 lo stesso.” In generale, secondo me non si dovrebbe tirare un dado se non si è pronti ad accettarne il risultato. Fare diversamente mi sembra un comportamento un po’ schizofrenico.

Come il railroading, anche il barare è generalmente malvisto, però ci sono situazioni in cui barare è ok. Più o meno sono le stesse situazioni in cui il railroading è ok: cioè quando i giocatori sono consapevoli che il barare rientra tra le cose che il DM potrebbe fare, e sono d’accordo. In questo caso nessuno viene ingannato, dunque non c’è nessun problema. Questo consenso dovrebbe sempre essere esplicito, con l’eccezione dei gruppi molto rodati che giocano insieme con soddisfazione da parecchi anni, in cui questo consenso può essere implicito.  Di nuovo, ciò che viene generalmente criticato è il DM che si arroga il diritto di decidere per conto suo cosa è meglio per il divertimento del gruppo, perché è un atteggiamento paternalistico. Alcuni giocatori potrebbero non apprezzare l’idea che il DM bari per salvarli o per mandare avanti la storia in una certa direzione (io per esempio mi opporrei a una cosa del genere), quindi hanno il diritto di essere informati se questa è una cosa che può succedere.

L’altro approccio

L’altro approccio per avere la storia appassionante in un gioco tradizionale è rinunciare a raccontare la storia appagante, e lasciare che una qualche storia si crei da sola come fenomeno emergente.

I sistemi tradizionali hanno regole strutturate in modo più o meno esplicitamente simulativo. Con questo intendo dire che le regole, piuttosto che cercare di riprodurre una certa struttura narrativa, si prefiggono solo di rappresentare in modo coerente la realtà del gioco – una realtà di gioco che può essere anche molto diversa dalla nostra. Per esempio, in un gioco tradizionale in cui i personaggi possono volare, le regole potrebbero limitarsi a dirti quanto veloce un personaggio può volare, quanto a lungo, quanto in alto, e così via. Non so se mi spiego.

Ecco, in questi giochi l’approccio più naturale è usare le regole per lo scopo per cui sono state create – simulare una certa realtà fittizia – e fermarsi lì.  Il DM abbandona l’idea di intervenire sulla storia, spingendola in una direzione piuttosto che in un’altra, e lascia che questa emerga naturalmente dalla realtà fittizia creata dalle regole e dalle azioni dei giocatori.

Come funziona in pratica? In questo tipo di gioco, il GM delinea un’ambiente o una situazione, magari offrendo alcuni spunti per avventure e/o luoghi da esplorare; i giocatori poi possono fare quello che vogliono e decidere le proprie avventure. Sono i giocatori il motore di quello che succede – il GM ha un ruolo passivo, e si limita a reagire alle scelte dei giocatori; il suo compito è semplicemente quello di realizzare in gioco le conseguenze delle loro azioni (di solito improvvisando). Questo tipo di gioco è noto anche come sandbox.

L’esempio più antico di questo tipo di gioco è l’hexcrawl, un tipo di campagna di esplorazione pura molto popolare negli anni ’70 e primi anni ’80, e ritornata di recente in voga grazie all’OSR. Qualcosa di simile, molto di moda qualche anno fa, sono le West Marches (diretta ispirazione per una campagna omonima nell’ambito dello show online RollPlay). Un tipo di campagna più “story-oriented” potrebbe essere creato elaborando situazioni in cui ci sono fazioni, forze e/o png con motivazioni, obiettivi e interessi in conflitto tra loro e con quelli dei personaggi, di modo da creare una rete più o meno complessa di relazioni. I personaggi, con le loro azioni, andranno ad influenzare una o più di queste relazioni, provocando delle reazioni. Il resto si evolverà naturalmente.

Chi è interessato alle campagne sandbox probabilmente vorrà dare un’occhiata ai giochi della Sine Nomine Publishing, specialmente Stars Without Number che è gratuito. Contengono ottimi suggerimenti e strumenti per creare campagne di questo tipo, che sono un po’ il marchio di fabbrica della SNP.

Qual è lo svantaggio della campagna sandbox? Sicuramente che è pesante per il GM, che deve passare un certo tempo a prepararsi prima delle sessioni, e soprattutto essere bravo a improvvisare; e poi che richiede ovviamente giocatori proattivi. Dal punto di vista dell’ottenimento di una storia drammaticamente appagante, lo svantaggio della campagna sandbox con il gioco tradizionale è che è inaffidabile. Sicuramente si verrà a creare una qualche storia, ma non è detto sia appassionante – e lo dico per esperienza. Se lasciate veramente libertà ai giocatori, è possibilissimo che emerga naturalmente una storia appassionante (nata dall’improvvisazione), ma questa sarà il risultato di uno o tutti questi fattori 1) un bravo GM; 2) bravi giocatori 3) il caso. In una sandbox autentica può venire fuori la storia emozionante, ma può anche venire fuori una storia mediocre dal punto di vista drammatico, o addirittura una storia che si interrompe in modo anticlimatico (esempio: total party kill intempestivo ad opera di mostri insignificanti). Inoltre, la storia emergerà a posteriori – dopo la sessione, ci guarderemo indietro e ricostruiremo una trama.

Naturalmente, una campagna sandbox può essere comunque divertente anche senza la storia emozionante – dipende da quali elementi i vostri giocatori traggono il loro divertimento. Le sopracitate West Marches sembrano divertentissime, eppure non c’è alcun tentativo di creare una storia. E, dal mio punto di vista, uno dei take home messages di questo articolo è un po’ questo: non avete necessariamente bisogno della storia appassionante per divertirvi. C’è stata, negli anni, una tendenza a far credere ai giocatori che il buon gdr produce necessariamente la bella storia, ma non è così. Il gdr può essere divertente e ben riuscito anche quando la storia è di per sé deludente. E come sempre, finché la gente si diverte, va tutto bene.

Una cosa che vorrei chiarire è che la stragrande maggioranza delle campagne adottano in realtà un approccio ibrido tra i due che ho presentato. Cioè, pochissime campagne sono o del tutto sandbox, o del tutto composte da una storia completamente pianificata. Le campagne che la gente gioca nella vita reale spesso presentano elementi di entrambi gli approcci, anche se solitamente uno dei due prevale sull’altro. Vale a dire: alcune campagne sono tendenzialmente sandbox, altre tendenzialmente storia-predeterminata. Molte campagne possono oscillare tra questi due poli nel corso del gioco; per esempio, nel corso degli anni diverse mie campagne sono partite con un abbozzo di storia predeterminata (in pratica, un aggancio per l’avventura, seguito da quello che, a grandi linee, mi aspettavo che sarebbe successo); ma quando i giocatori si sono allontanati da ciò che mi aspettavo, o comunque quando hanno cambiato le carte in tavola con le loro azioni, queste campagne sono ben presto deviate verso il sanbox: a quel punto ho iniziato ad improvvisare e far reagire PNG/fazioni/mostri/l’ambientazione in maniera coerente rispetto alle azioni dei giocatori, abbandonando qualunque idea avessi circa lo sviluppo della campagna.

I giochi non tradizionali e il motivo per cui hanno tutte quelle regole bislacche

Abbiamo visto che in un gioco di ruolo tradizionale ci sono due modi fondamentali per avere una storia appassionante. Uno è avere la storia appassionante già scritta, che per definizione è un sistema molto affidabile (è già scritta!). Tuttavia, questo approccio ha dei grossi problemi, e di fatto può essere mantenuto solo utilizzando strategie spesso non desiderate dai giocatori. Più raramente (almeno nella mia esperienza) i giocatori richiedono la presenza di una storia già scritta, ed accettano che il DM faccia il possibile per mantenerla: in quest’ultimo caso, finché tutti si divertono e sono d’accordo, va tutto bene. L’approccio concettualmente opposto è dare completa libertà d’azione ai giocatori, e lasciare che la storia si crei da sola in modo naturale. Questo approccio mantiene la libertà dei giocatori e tende a risultare più accettabile. Tuttavia, non funziona molto bene con giocatori passivi ed ha, tra le altre cose, il grosso svantaggio di non essere in grado di produrre affidabilmente una storia appassionante. A volte si creerà, a volte no. So it goes.

Proseguiamo adesso con la nostra storia.

La nuova enfasi sulla storia si diffuse rapidamente anche al di là di D&D: nel 1991, due anni dopo AD&D 2e, sarebbe stato pubblicato Vampire: The Masquerade, forse il gioco più iconico degli anni ’90. Vampire, almeno in teoria, era un gioco che si compiaceva del proprio focus sulla storia, sulla narrazione, sull’intrigo, e sull’introspezione personale – autodefinendosi “a game of personal horror” (in it. “un gioco di intimo orrore“).

Gli anni ’90 passano. Vampire: the Masquerade è giocatissimo. AD&D 2e sforna degli storici Campaign Settings piuttosto focalizzati sull’elemento storia (vedi Planescape). I videogame di Final Fantasy, caratterizzati da storie complesse e coinvolgenti, si diffondono rapidamente in occidente. Insomma, tutti vogliono storia, storia, storia. Negli anni ’90 si inizia anche a sperimentare – per esempio, nel 1991 esce Amber Diceless, il primo gioco di ruolo a non utilizzare dadi; nel 1999 uscirà Nobilis, altro gioco diceless piuttosto, uh, cerebrale (i giocatori interpretano concetti astratti personificati. No, davvero. …WTF?!). Gli anni ’90 sono però anche un periodo di profonda crisi per il gdr cartaceo, minacciato dal diffondersi dei giochi per computer, sempre più elaborati, e dal successo dei giochi di carte collezionabili (come Magic: The Gathering). C’è un’aria tesa nell’industria dei gdr, costretta ad assecondare i capricci del mercato e inventarsele di tutte pur di rimanere a galla: gli anni ’90 sono anche il decennio degli splatbooks.

Arriviamo quindi alla fine degli anni ’90, e facciamo la conoscenza di Ron Edwards, PhD.

Edwards era un insegnante di biologia e dottorando all’Università della Florida, e nel tempo libero scriveva giochi di ruolo. L’intero movimento legato ai giochi “indie” (indipendenti) come lo conosciamo oggi nacque perché Edwards divenne disilluso nei confronti dell’industria editoriale commerciale per diverse ragioni. I contratti tra autori e case editrici tendevano a dare molto controllo sul prodotto alla casa editrice – per esempio, la casa editrice poteva decidere unilateralmente di produrre una nuova edizione di un gioco, che l’autore fosse d’accordo o no. Tanto per parlare di un gioco che tutti conosciamo, D&D è ora alla sua quinta edizione. Ecco, se domani la WotC decidesse di pubblicare la sesta edizione di D&D, e Mike Mearls non fosse d’accordo, non sarebbe certo lui ad avere l’ultima parola. “Indie”, quindi, significa solo questo: giochi che sono autopubblicati, in modo tale che l’autore mantenga il controllo sul proprio prodotto.

Spinto dalla propria insoddisfazione, più o meno nel 1999 Edwards avviò un sito dedicato ai giochi pubblicati da autori indipendenti, che allora non erano molti. Quel sito qualche tempo dopo (nel 2001) sarebbe stato ribattezzato The Forge. Su quel sito poteva discutere chi era interessato ai giochi indie (autori o meno), e tra le altre cose si parlava anche di teoria e game design. È in questo contesto che Edwards avrebbe sviluppato la Teoria GNS, che più tardi sarebbe stata incorporata in un framwork teorico più ampio, il Big Model.

A partire dal 1999, Edwards iniziò a pubblicare alcuni articoli di teoria: questo è uno dei più importanti. Io sinceramente dell’impianto teorico di cui si discuteva su The Forge ne so il giusto. A causa del gergo astruso non mi sono mai veramente addentrato nei suoi meandri. Ammetto che molte cose le ho imparate nelle ultime due settimane, quando facevo ricerche per questo articolo, in modo da non scrivere baggianate; per questo motivo eviterò di parlare in dettaglio di questa roba. Per chi fosse interessato ad una analisi più approfondita su The Forge, le sue teorie, e quello che ha rappresentato per la scena dei giochi di ruolo, consiglio fortemente questo post, che è una delle retrospettive più complete ed equilibrate che abbia trovato sull’argomento, e si allinea abbastanza alla mia visione della cosa.

L’articolo di Edwards comunque è comprensibile anche senza sapere niente di teoria GNS. In pratica, il nocciolo della sua argomentazione (spiegato con parole mie) è che la gente, in un gdr, trae il proprio divertimento attraverso la soddisfazione di “appetiti” diversi, che non sempre sono compatibili tra loro. Un gioco di ruolo progettato per assecondare un appetito specifico è meglio di un gioco che tenta di soddisfarli tutti, o che è progettato senza una chiara idea di quale appetito stia cercando di soddisfare. Questo perché il gioco che tenta di soddisfarli tutti non ne soddisferà pienamente nessuno: ogni tipo di giocatore troverà qualcosa del sistema che gli piace, ma anche qualcosa che lo disturba.  Invece, il gioco che tenta di soddisfare un tipo specifico di appetito soddisferà una sola tipologia di giocatore, ma almeno la soddisferà pienamente. Edwards nell’articolo individua tre forme principali di appetito autoescludentisi, o “creative agendas” (intenti creativi) nel gergo forgita: gamista (= il gdr visto come esperienza di gioco, in cui il divertimento consiste nel superare delle sfide), simulazionista (= il gdr visto come strumento per esplorare una particolare realtà o un genere), e narrativista (= il gdr visto come occasione per raccontare una storia, anche se in realtà questa definizione è imprecisa). Si può essere o meno d’accordo con questa visione delle cose; comunque l’articolo è ben argomentato ed è molto interessante, per cui consiglio di leggerlo con una mentalità aperta, a prescindere dalle proprie idee. Per quanto riguarda me, sono d’accordo in linea generale su alcune argomentazioni (es. che il sistema è importante per favorire una certa esperienza di gioco), ma meno su altre (es. che questi intenti si escludano tra loro).

Sia come sia, Edwards non ha mai fatto mistero di essere uno che giocava per raccontare una storia, e di essere insoddisfatto dei giochi che promettevano ai giocatori la capacità di raccontare grandi storie, senza che il regolamento facilitasse questo compito. Ecco perché molte persone che hanno abbracciato la visione forgita odiano Vampire: The Masquerade e, in minor misura, AD&D 2e. Erano due giochi molto popolari che promettevano grandi storie, ma non mantenevano le loro promesse. Ed ecco perché i designer associati a The Forge tentarono di rimediare a questa mancanza con giochi dalle regole non convenzionali, concepite per facilitare la creazione di specifiche storie, strutturate in modo preciso. Gli individui collegati a vario titolo a The Forge furono quindi il secondo gruppo di persone che giunse ad odiare la nuova attenzione alla storia dei gdr tradizionali, poiché vissero il tutto come una menzogna o una promessa non mantenuta. (Il primo, ricordiamolo, sono i grognard old school, che hanno visto questa attenzione alla storia come un tradimento dello spirito originale del gioco.) (tra parentesi: notare che Edwards e compagnia bella non sostenevano che fosse impossibile raccontare una storia con i giochi tradizionali, tutt’altro – si lamentavano però che il regolamento non facilitasse od ostacolasse questo compito) (altra parentesi: dovrei precisare che la storia come la intende Edwards è diversa dalla storia come l’ho definita io un po’ di righe fa – Edwards ha una sua definizione particolare di cosa costituisce una storia nell’ambito di un gioco narrativista, che è molto più restrittiva della mia definizione).

Dicevamo. I frequentatori della Forgia furono molto influenzati dalle idee di Edwards, e iniziarono a progettare giochi seguendo la stessa logica. Dato che la stragrande degli utenti del forum giocavano per raccontare storie, i giochi che vennero prodotti erano molto focalizzati sulla storia, e vennero associati a quello stile. Con il tempo, gioco indie divenne (impropriamente) sinonimo di “gioco non tradizionale fatto per raccontare storie”.  In realtà gioco indie vuol dire semplicemente gioco di ruolo autopubblicato in cui l’autore mantiene il controllo della propria creazione. Stop. I giochi sfornati dalla forgia erano anche indie, ma non tutti i giochi indie sono forgiti o narrativisti. Per esempio, molti giochi OSR sono indie, ma assolutamente tradizionali e per niente narrativisti. Inoltre, c’è anche da fare chiarezza su un equivoco di fondo che circonda questi giochi: in realtà solo *pochi gdr* furono progettati seguendo strettamente le teorie forgite; la maggior parte dei giochi non tradizionali prodotti negli anni sono stati progettati senza seguire alcuna teoria particolare. Per esempio, Dungeon World o Apocalypse World sono indie, e possono essere considerati story-focused (nel senso che hanno meccaniche che manipolano direttamente la storia), ma hanno molto poco a che fare con the Forge, e sono giochi tutto sommato abbastanza tradizionali. Ad ogni modo, la definizione probabilmente più corretta per questi giochi è “non-tradizionali”, il che li contrappone ai giochi “tradizionali”. Si caratterizzano infatti per meccaniche non convenzionali, più o meno sperimentali, che scardinano alcuni degli assunti dei giochi tradizionali – es. dando maggiore controllo narrativo ai giocatori, progettando meccaniche senza logiche simulative, eliminando parti del gioco considerate  fondamentali nel gdr tradizionale (come la presenza di un GM), etc. etc.

In altre parole, il motivo per cui i giochi non tradizionali hanno tutte quelle regole bislacche è perché sono giochi progettati seguendo una logica del tutto diversa rispetto ai giochi tradizionali: le regole non sono concepite per simulare una realtà, bensì tentano di perseguire altri obiettivi. In alcuni casi, le meccaniche possono essere concepite in modo da facilitare la produzione affidabile di storie particolari, specifiche, e strutturate in un certo modo (per es. con un inizio, uno svolgimento e una fine), spesso in un contesto tematico ben preciso (esempio tipico: Polaris). In altre parole, le meccaniche manipolano direttamente la storia. Le storie prodotte da questi giochi sono prodotte “live” (story now), mentre si gioca, e non decise a priori o ricostruite retrospettivamente quando si esamina cos’è successo durante la sessione di gioco. Un altro esempio tipico è My Life with Master, tradotto come La Mia Vita col Padrone, uno dei primi giochi indie a diffondersi apprezzabilmente in Italia (almeno, che mi ricordi – era il 2008 o il 2009). Un esempio di gioco forse più abbordabile è Dogs in the Vineyard (Cani nella Vigna), anche questo divenuto un classico.

Alcuni (tra cui me!) tendono a non amare molto questo tipo di meccaniche, perché possono spezzare l’immersione nel gioco (parlo soprattutto delle meccaniche che forniscono controllo narrativo al giocatore).

C’è qualcuno che vorrebbe farvi credere che se non vi piacciono questi giochi siete delle brutte persone. Ovviamente non è vero. È solo questione di preferenze personali. Potrebbero esserci molte ragioni per cui non vi piacciono. Potrebbe essere perché magari per voi la storia non è così importante come credevate. Per voi potrebbe essere più importante l’immersione, che è una cosa diversa, o la simulazione (di un mondo fittizio o di un particolare genere di fiction). Oppure potrebbe essere perché preferite giocare seguendo una storia predeterminata e scritta da qualcun altro. O magari vedete il gioco di ruolo principalmente come un’esperienza di gioco, e della storia non ve ne può fregare di meno.

The Forge oggi, e perché un sacco di gente ce l’ha ancora con quel dannato sito

Il sito The Forge è stato chiuso da Edwards, perché riteneva che avesse esaurito il suo scopo (in pratica, dimostrare che era possibile l’autopubblicazione di un gdr così come l’autore lo intendeva, senza dover obbedire a esigenze di mercato, mode, o altri principi che non fossero il suo gusto). Una sezione del forum venne chiusa nel 2005, e poi il resto del sito fu chiuso definitivamente nel 2012; esiste ancora, ma solo come archivio.

Oggi, nel 2016, il Big Model e le teorie forgite sono pressoché irrilevanti per chiunque, nel senso che ormai non se ne discute praticamente più. L’unico che forse continua a prenderle sul serio è Ron Edwards – personaggio caduto un po’ nel dimenticatoio. Neppure a Vincent Baker frega più una mazza del big model e della teoria GNS. C’è ancora qualcuno che ne parla, ma sinceramente fa molto 2008 (o 2010 se vivi in Italia, da noi arriva tutto dopo).

Se il Big Model ed in generale The Forge sono ormai storia, molti giochi nati nel contesto della forgia hanno avuto una grossa influenza nell’industria dei giochi di ruolo. Alcune idee sviluppate in quel contesto sono entrate a far parte del bagaglio culturale generale, ed incorporate in giochi per altri versi tradizionali (vedi per esempio 13th Age, e lo stesso D&D 5E con l’Ispirazione). Direi che la distinzione giochi tradizionali/giochi non tradizionali è un po’ sfumata negli ultimi anni, e probabilmente non è più molto utile. Fate è tradizionale o non tradizionale? I pbta (giochi derivati da Apocalypse World) sono tradizionali o non tradizionali? Personalmente non saprei rispondere: sì, sono giochi non tradizionali per alcuni aspetti, ma allo stesso tempo vicini come impostazione ai giochi tradizionali.

Quello che è importante capire è che le varie teorie forgite erano teorie concepite per analizzare il gdr secondo l’ottica di una persona insoddisfatta e infelice del proprio gioco, che non riusciva a ottenere quello che voleva dal gioco, e non capiva bene né perché, né come risolvere i suoi problemi. Oggi questo non è più vero – The Forge ha vinto la sua battaglia; ha cambiato la cultura del gdr.  Oggi esistono centinaia o forse migliaia di giochi diversi, per tutti i gusti; giochi tradizionali, giochi non tradizionali, giochi con il GM, giochi senza il GM, giochi con i dadi, giochi senza dadi, giochi con i tarocchi, giochi così sperimentali che esiterei a definirli giochi di ruolo. C’è anche, in generale, più consapevolezza sul fatto che le persone che giocano di ruolo possono avere motivazioni diverse per giocare, e dunque esigenze diverse; che non tutti i giocatori traggono il proprio divertimento dalle stesse fonti; e c’è più consapevolezza circa i problemi (sociali e non) che possono far sì che il gioco vada storto e la gente non si diverta.

Nonostante abbia ormai fatto il suo tempo, a distanza di anni dalla sua scomparsa ci sono ancora tantissimi forum dove anche solo nominare The Forge fa subito scaldare gli animi. Il fatto è che c’è un sacco di gente a cui The Forge ha dato molto fastidio. Nella stragrande maggioranza dei casi, questo è dipeso non tanto da The Forge in sé, ma dai suoi fanboy, che all’epoca di massima popolarità della forgia, andavano in giro per i forum a promuovere, anche molto aggressivamente, i giochi e le teorie forgite. Questo veniva spesso fatto criticando con una certa acredine i giocatori ed i giochi tradizioanli – scatenando regolarmente flame e polemiche. Quello che dava fastidio (almeno, a me) era 1) il fervore quasi religioso con cui certi concetti venivano spinti; 2) l’atteggiamento spocchioso/elitario/snob, per cui pareva che ci fossero gdr giusti e gdr sbagliati, così come modi giusti di divertirsi e modi sbagliati; 3) la tendenza a criticare aggressivamente i giochi tradizionali e i giocatori tradizionali, trattati talora come deficienti solo per il fatto di apprezzare un certo tipo di gioco. A questo bisogna aggiungere il gergo forgita, composto anche di espressioni francamente offensive, che non è che facessero molto per nascondere il disprezzo verso chi giocava ai giochi tradizionali: vedi il termine brain damage, o il nostrano parpuzio (coniato da un utente di cui non faccio il nome, ma che incorpora perfettamente le caratteristiche di cui sopra). Purtroppo raramente si vedevano le persone più moderate prendere le distanze da questi eccessi vergognosi (“no aspetta, ma che c*zzo stai dicendo?”). Per come la vedo io, la diffidenza e l’astio nei confronti della Forgia è soprattutto frutto di questo tono da missionario-inquisitore e dall’integralismo di certi utenti che ancora oggi bazzicano in, uhm, certi forum.

Che ne penso io della Forgia e dei giochi non tradizionali?

In generale, non tollero il fanboy forgita prepotente – quello aggressivo, invadente, polemico, che non riesce a parlare dei giochi che gli piacciono senza parlare male dei giochi che piacciono agli altri. E non dovreste tollerarlo neanche voi, a prescindere dalle vostre preferenze. Riguardo The Forge ed i giochi non tradizionali in sé: alcune parti delle teorie della forgia sono interessanti e anche condivisibili, altre non mi trovano d’accordo. Penso tuttavia che l’esistenza di The Forge sia stata utile perché:

1) ha catalizzato la creazione di un sacco di giochi innovativi. Alcuni mi piacciono, altri no, altri mi lasciano indifferente. Ma va bene: non sono giochi che magari sono interessato a giocare personalmente, ma sono contento che esistano. Sono contento se rispondono agli appetiti di qualcuno. E comunque alcune idee nate da questi giochi hanno contribuito ad innovare anche nell’ambito dei giochi tradizionali.

2) hanno promosso la creazione di giochi che servivano un tipo di giocatore fino a quel momento bistrattato dall’industria – il giocatore che giocava per la storia. Sono dell’opinione che ci siano giochi adatti e giochi meno adatti alle preferenze delle singole persone. Sono contento di vedere giocatori soddisfatti con i giochi non tradizionali, piuttosto che vederli lamentarsi sui forum perché non riescono a ottenere quello che vogliono con D&D o PF o che ne so. Ognuno fa i suoi giochi in pace, e tutti siamo felici. Win-win.

3) ha spinto all’autoriflessione e all’autocritica su un sacco di temi (l’autorità del DM, rapporti disfunzionali tra giocatori, la necessità di riconoscere le motivazioni delle persone, etc), e penso che da questa riflessione e autocritica ne abbia tratto beneficio anche il gioco tradizionale.

TL; DR

A partire dalla metà degli anni ’80, il gioco di ruolo si allontana dalle proprie radici introducendo l’idea di giocare per raccontare una storia. Dal punto di vista della storia, le campagne giocate con giochi tradizionali sono tipicamente comprese all’interno di uno spettro: ad un estremo dello spettro troviamo la campagna con la storia predeterminata che sarà seguita durante il gioco effettivo; all’altro estremo troviamo la campagna priva di qualunque storia predeterminata, che invece emerge naturalmente, sul momento, durante il gioco. Entrambi questi approcci hanno pro e contro, e in linea di massima nessuno dei due è intrinsecamente sbagliato, purché i giocatori diano il proprio consenso informato e si divertano; tuttavia, l’approccio “storia predeterminata” è spesso imposto a giocatori che non lo desiderano, e come tale è generalmente malvisto. Alla fine degli anni ’90 iniziano ad emergere giochi non-tradizionali, che adottano un approccio nuovo: le loro meccaniche facilitano in vario modo la creazione di storie. Questi giochi esplodono anche grazie a The Forge, una community ora defunta che fece da punto di raccolta per autori e giocatori insoddisfatti del proprio gioco. Parecchie idee nate nel contesto della Forgia hanno influenzato lo sviluppo di molti giochi recenti, per altri versi tradizionali, e hanno cambiato la cultura dei gdr in generale.

Qual è il take-home message?

  • Non tutti i giocatori hanno necessariamente bisogno di una storia appassionante per divertirsi, che è un’idea che non è sempre stata intrinseca al gioco di ruolo (vedi il sandbox play, che generalmente è divertente pur essendo incapace di produrre affidabilmente storie degne di nota).
  • Ai vostri giocatori potrebbe andare bene di giocare una storia predeterminata, e potrebbero anche accettare un po’ di railroading pur di rimanere sui binari; però non datelo per scontato! Prima di farlo, parlate con loro e chiarite le vostre aspettative reciproche. In caso di dubbio, l’approccio più safe è rinunciare alla propria storia predeterminata per non annullare la libertà d’azione dei vostri giocatori, e far reagire l’ambientazione alle loro scelte.
  • Più o meno è la stessa roba per barare – ai vostri giocatori potrebbe andare bene che il DM modifichi i tiri di nascosto per esigenze di storia, ma potrebbero anche non gradire l’idea. Prima di farlo, parlatene con loro. Se non vogliono, trovate un’altra soluzione.
  • Se siete insoddisfatti del vostro gioco, prendete in considerazione l’idea che forse state usando il sistema di gioco per scopi diversi da quelli per cui è stato concepito. Forse le vostre aspettative non si allineano bene a quelle del gioco. Tenete presente che ci sono tanti giochi di ruolo a vostra disposizione, e magari uno di questi potrebbe esservi più congeniale. Se per voi la storia è davvero importante, e ritenete che D&D o Pathfinder non vi soddisfino, ci sono molti giochi che sono stati progettati per produrre storie. Se è la vostra idea di divertimento, funzionano.

 

Perché il Mazzo delle Meraviglie è il mio oggetto magico preferito (con qualche consiglio su come rendere speciali gli oggetti magici)

Il Mazzo delle Meraviglie è il mio oggetto magico preferito. Per molti aspetti è un pessimo oggetto magico, ma è il mio preferito.

Ogni volta che l’ho usato in una campagna, la campagna è andata completamente e definitivamente a puttane. Ogni singola volta.

Però il Mazzo delle Meraviglie continua ad essere il mio oggetto magico preferito.

La prima volta non si scorda mai

Mi ricordo la prima volta che ho dato ai miei giocatori un Mazzo delle Meraviglie. Avevo da poco iniziato a fare il DM con D&D 3.0. Avevo letto del Mazzo nella Guida del Dungeon Master, più e più volte, e ogni volta che lo leggevo aumentava la voglia di metterlo in mano ai miei giocatori.

Non era la prima volta che ne sentivo parlare. C’erano infatti alcuni oggetti magici e diversi artefatti che erano arrivati ad assumere, col tempo, un’aura quasi leggendaria nel circolo di amici più grandi con i quali avevo iniziato a giocare ad AD&D. Di questi oggetti si parlava nella maggior parte dei casi con ammirazione, semplicemente in virtù del loro grande potere.

Ma non il Mazzo delle Meraviglie. Di quello si parlava con… rispetto. “Il Mazzo delle Meraviglie? Quello è pericoloso.” C’era una sorta di timore verso il Mazzo, una sorta di deferenza che invitava alla cautela quando avevi a che fare col Mazzo.

Mi avevano spiegato che si trattava di un mazzo di carte magiche. Ad ogni carta è legato un effetto, piuttosto potente, che entra in gioco quando la carta viene pescata. Alcuni di questi effetti sono positivi per chi pesca la carta, altri negativi. Il Mazzo potrebbe garantire al tuo personaggio potere e ricchezze, ma potrebbe anche rovinarlo, facendogli perdere tutti gli oggetti magici, o imprigionandolo in una dimensione o un luogo remoto ed inaccessibile.

“Lascia perdere”, mi avevano spiegato.

Io però lo volevo usare, e così alla fine cedetti all’impulso e lo inserii in una delle mie campagne.

Bilancio finale: due personaggi letteralmente distrutti (uno dei quali rimasto in stato catatonico dopo che la sua anima fu risucchiata dal corpo), un terzo con la personalità stravolta, e un altro salito di non-mi-ricordo-quanti livelli. Decidemmo di comune accordo di interrompere la campagna e iniziarne una nuova.

Col senno di poi, riconosco di aver commesso almeno tre errori: uno fu di aver dato il Mazzo ai personaggi senza fornire loro nemmeno una vaga idea di cosa avevano davanti. In realtà i miei giocatori furono più intelligenti di me e tentarono una prova di conoscenze, grazie alla quale appresero di cosa si trattava. Però la mia visione attuale è che fosse compito mio dare almeno un indizio sulla natura dell’oggetto.

Il secondo errore fu di aver messo il Mazzo delle Meraviglie in mano a personaggi di 6° livello interpretati da adolescenti dalla maturità discutibile. Credo che il Mazzo sia gestibile (ma comunque problematico) in mano a personaggi di alto livello (15+), ma in mano a personaggi di 6° livello è praticamente garantito che manderà a p*ttane la campagna.

Il terzo errore fu di aver messo il Mazzo delle Meraviglie nella mia campagna, stop. Il fatto è che io quella campagna non volevo mandarla a rotoli. Ho usato il Mazzo senza comprenderne le implicazioni. Più in generale, non usate il Mazzo delle Meraviglie in una campagna se non siete pronti a stravolgerla o interromperla. Alcune campagne (es. campagne sandbox con alto turnover di personaggi/alta mortalità) potrebbero essere meno destabilizzate dal Mazzo, ma in generale il Mazzo introduce caos – non aspettatevi qualcosa di diverso. Dopo il mazzo, niente sarà più come prima. Questo l’ho imparato quando l’ho usato successivamente in altre campagne, sempre con lo stesso risultato.

Il problema del Mazzo delle Meraviglie.

Il problema del Mazzo è che è pieno di effetti random che sono quasi sempre destabilizzanti, specialmente ai bassi livelli: o sono troppo deleteri, o sono troppo buoni. Se cercate nelle vaste distese dell’Internet, troverete innumerevoli storie dell’orrore sul Mazzo delle Meraviglie, con alcuni che arrivano a pensare che l’unico buon motivo per inserire il Mazzo in una campagna sia quando si vuole terminarla rapidamente. Col tempo, il Mazzo si è addirittura guadagnato la fama di Divoratore di Campagne.

E viste le mie esperienze, non posso che concordare con questi pareri: il mazzo delle meraviglie è una mina vagante. Molti DM lo introducono con leggerezza nelle proprie campagne, pensando di aggiungere un po’ di pepe al gioco. Quello che non si aspettano è l’ondata di caos che lo accompagna, che probabilmente avrà un effetto irreversibile sul gruppo dei personaggi e la vostra campagna così come la conoscete, indipendentemente dal fatto che vengano pescate carte positive o carte negative.

“E allora perché è il tuo oggetto magico preferito?!”

Perché il Mazzo delle Meraviglie è il mio oggetto magico preferito

Perché è un oggetto estremamente affascinante.

Innanzi tutto è affascinante perché è una sorta di reperto archeologico: è uno di quegli oggetti magici che sono comparsi precocemente nella storia di D&D, e che D&D continua a portarsi dietro edizione dopo edizione per nessun motivo apparente se non la tradizione. Più precisamente, è comparso nel primo supplemento per OD&D, Supplement I Greyhawk (1975). Il Mazzo è stato poi modificato in AD&D 1e, e da allora è rimasto praticamente uguale di edizione in edizione. Ancora evidentissimo il suo retaggio squisitamente gygaxiano: tra le carte, ce n’è una che conferisce al giocare una keep, una fortezza – i possedimenti in AD&D erano uno dei “privilegi di classe” dei personaggi di alto livello. Anche guadagnare il servizio di un guerriero di 4° livello è un qualcosa che richiama il D&D degli anni ’70 e 80, visto quanto era comune per gli avventurieri avere uno stuolo più o meno nutrito di seguaci e mercenari.

Il Mazzo è affascinante anche perché è un oggetto anomalo nel panorama della magia “scientifica” di D&D. Il Mazzo è l’unico oggetto veramente meraviglioso: è un oggetto che si rifà a una concezione della magia fondamentalmente estranea a quella tipica di D&D, dove la magia di meraviglioso ha ben poco. È una magia controllabile, riproducibile, deterministica, e soprattutto una magia utile: solitamente c’è una netta separazione tra effetti palesemente benefici (incantesimi da lanciare su sé stessi o sugli alleati) ed effetti palesemente dannosi (incantesimi da lanciare sugli avversari). Il Mazzo invece è un oggetto che non mostra nessuna di queste caratteristiche: potrebbe comparire in una fiaba o in qualche storia del folklore popolare. Considerate per un attimo l’idea di un Mazzo magico estraendo una carta dal quale si può essere istantaneamente coperti di ricchezze oltre ogni immaginazione, o che permette di entrare in possesso di un castello che appare dal niente. Non potrebbe essere un oggetto protagonista di uno dei racconti delle Mille e Una Notte, come la lampada meravigliosa di Aladino?

Il Mazzo è un oggetto che richiama quel corpus della mitologia, del folklore e della letteratura del fantastico dove la magia è ingannatrice; potente ma pericolosa; seducente e tentatrice, ma allo stesso tempo ambigua e beffarda; e dove la magia spesso finisce per rivoltarsi contro chi la usa. È un oggetto enigmatico che sfugge alla logica e alla comprensione, un qualcosa di autenticamente preternaturale. In un mondo come quello di D&D dove gli oggetti magici hanno scopi e usi palesi, che senso ha un Mazzo delle Meraviglie? A che serve? Chi l’ha creato, e a quale scopo? Che se ne fa un personaggio di un Mazzo delle Meraviglie?

Non potrebbe comparire in una fiaba, di quelle che ci raccontavano da bambini? Dove i protagonisti vengono a contatto con cose meravigliose, divengono protagonisti per ragioni misteriose di eventi straordinari, fantastici, che non capiscono e sfuggono alla loro razionalità? Però questi eventi meravigliosi nella fiaba non hanno bisogno di una razionalizzazione: accadono e basta.

Ma non è solo questo. Quello che mi affascina è anche il fatto che il Mazzo è uno dei pochi oggetti magici che richiede una attenta riflessione da parte del giocatore prima di utilizzarlo.

Una spada lunga +5 non richiede una grande riflessione prima di essere usata. Ma nemmeno una spada lunga +1, se il tuo personaggio possiede solo una normale spada lunga. Male male, se sei indeciso, ti fai due conti e decidi. Se tutto quello che fa un oggetto magico è darti un bonus numerico, una capacità in più, dei danni in più e così via, ci sono ben poche riflessioni da fare. Al massimo si tratta di stabilire l’oggetto più conveniente.

Per il Mazzo invece non è così semplice. Il Mazzo è una scommessa ad alto rischio/alto guadagno. So che il mazzo ha uguali possibilità di distruggermi o darmi un grande potere, in modo altrettanto facile: vale la pena di pescare una carta? Sono disposto a rischiare così tanto per ottenere potere?

E in effetti, dato che il mazzo è potenzialmente distruttivo sia che venga estratta una carta positiva sia che venga estratta una carta negativa, si potrebbe addirittura spingersi ad affermare che il Mazzo è un oggetto magico per il quale vale una considerazione unica tra tutti gli oggetti magici: il modo migliore di utilizzarlo, la soluzione dell’oggetto, è decidere di non utilizzarlo.

Il Mazzo simboleggia in altre parole quello che è un tema profondo e ancestrale che risuona nel nostro immaginario, nella mitologia e nella letteratura di tutti i tempi: il tema della Tentazione. Compare nella Bibbia (Adamo ed Eva, anyone?), nel mito (le Sirene), nella letteratura (Faust) e anche nel Signore degli Anelli (cos’è l’Unico Anello se non la tentazione finale?).

Pur avendo speso 1500 parole a dirvi come mai il Mazzo delle Meraviglie è un terribile oggetto magico che porterà caos e rovina sul vostro gruppo, chiedetevi  questo: se aveste la possibilità di pescare, lo fareste? Siete sicuri che non vorreste pescare un’unica, insignificante carta? Così per provare. Siete sicuri che non cedereste alla tentazione sapendo che potreste ottenere migliaia di punti esperienza, oggetti magici, e perfino la possibilità di esaudire dei Desideri?

Cosa possiamo imparare dal Mazzo delle Meraviglie – rendere speciali gli oggetti magici

Ci sono diversi insegnamenti che si possono trarre dal Mazzo delle Meraviglie. Quelli su cui vorrei soffermarmi però sono due: 1) che è interessante quando gli oggetti magici spingono il giocatore a fare una scelta o valutare rischi e benefici; 2) che gli oggetti magici che più evocano il senso del fantastico e del meraviglioso sono quelli non razionali, quelli che non si riesce a inquadrare completamente nella magia “scientifica” di D&D. Gli oggetti che sorprendono, che non è possibile controllare completamente, che rimangono ambigui e che ogni volta che vengono usati ti danno un piccolo brivido lungo la schiena mentre pensi “e ora cosa mi aspetta?”

Magari oggetti di questo tipo non sono la vostra cup of tea, e va benissimo. Non posso biasimarvi: come ho scritto più su, il Mazzo è un oggetto controverso, e fondamentalmente estraneo alla tipica magia D&D-esca. Gli oggetti magici (e più in generale la magia) così come sono presentati in D&D non sono “sbagliati”. Sono espressione di una particolare concezione della magia. Se non vi piace l’idea di una magia più ambigua e meno controllabile, non dovete cambiare niente.

Se invece vi ispira l’idea di una magia più misteriosa, più pericolosa, e che evochi maggiormente l’idea del meraviglioso e del fantastico, qui di seguito c’è qualche idea che potrebbe interessarvi. In breve:

  • Ogni oggetto magico dovrebbe avere uno o più effetti indesiderati: dei costi, o dei lati negativi;
  • Non tutti gli oggetti magici dovrebbero essere comprensibili: inserite anche oggetti che non hanno un utilizzo o scopo ovvio, ma che fanno flavour ;
  • Evitate i supermarket degli oggetti magici;
  • Gli oggetti magici non si dovrebbero poter produrre facilmente;
  • Limitate l’incantesimo Identificare.

Questi sono tutti consigli che possono funzionare da soli, quindi non dovete applicarli necessariamente tutti. Però sono sinergici, cioè funzionano bene tra loro, per cui applicandone più di uno aumentate l’effetto. Inoltre, queste idee funzionano particolarmente bene in campagne “low magic”, cioè campagne dove la magia è rara. Se questo tipo di campagna vi ispira, dovreste valutare, oltre ai consigli di cui sopra, se è il caso di rendere ciascun oggetto magico non consumabile unico. (Gli oggetti magici consumabili sono in pratica pozioni e pergamene). Cioè, non esiste una spada lunga +1 – quella spada lunga +1 è la spada lunga +1, l’unica spada lunga +1 esistente. In pratica, tutti gli oggetti magici non consumabili diventano artefatti.

Ogni oggetto magico dovrebbe avere uno o più effetti indesiderati – dei costi o lati negativi.

Questo non dovrebbe essere qualcosa di orribile come “oh hai pescato il Donjon? Il tuo personaggio è fottuto per sempre <3”. Dovrebbe essere un effetto indesiderato, cioè un effetto che al vostro giocatore farebbe comodo non ci fosse, ma con cui deve scendere a compromessi se vuole usare l’oggetto. Se decide di usare l’oggetto, deve prendere tutto il pacchetto: gli effetti desiderati e quelli indesiderati. Questo effetto indesiderato dovrebbe essere proporzionale alla potenza dell’effetto desiderato dell’oggetto, per cui più un oggetto è potente, più è spinosa la scelta (perché magari devi offrire un grande sacrificio in cambio del potere). C’è una sola regola in pratica: l’effetto indesiderato non deve essere tale da rendere l’oggetto inservibile (altrimenti dov’è il dilemma di usarlo o meno?). Per esempio, consideriamo l’Unico Anello, che sicuramente molti hanno presente. Lasciamo stare che non è chiarissimo cosa esattamente faccia l’Unico Anello (vedi [1], [2]); limitiamoci a quello che sappiamo: quando Frodo lo indossava diventava “invisibile” (in realtà, veniva spostato nel wraith-world, il mondo degli spettri), ma al prezzo di attrarre anche attenzioni indesiderate. Questo è un buon effetto collaterale perché è certamente qualcosa che a Frodo farebbe comodo che non ci fosse, ma allo stesso tempo non rende inutile l’Unico Anello. Piuttosto, fa dell’usare l’Unico Anello una scelta non automatica che deve essere presa soppesando rischi e benefici – che è l’effetto a cui vogliamo puntare. Inoltre, l’Unico Anello aveva anche un costo che imponeva al proprio portatore (la corruzione).

Classicamente in D&D solo gli artefatti hanno questo tipo di effetti indesiderati (costi o veri e propri lati negativi). Questo da una parte contribuisce a rendere gli artefatti davvero unici e speciali. Dall’altra parte, i personaggi difficilmente troveranno molti artefatti nella loro carriera – è molto più probabile che trovino semplici oggetti magici. Quindi se si vuole che tutti gli oggetti magici abbiano qualcosa di “strano” e che spingano ad una riflessione tipo costi-vs-benefici, diamo a tutti qualche piccolo effetto collaterale. Merita ribadire che questa è una cosa che si dovrebbe tenere in considerazione specialmente in campagne a bassa magia.

Per esempio, un effetto a doppio taglio che potremmo pensare di assegnare ad una spada piuttosto potente potrebbe essere questo: in aggiunta alle sue proprietà convenzionali (tipo bonus ai danni), quando il tuo personaggio è a rischio di morire (es. scendere a 0 punti ferita, o al primo fallimento sul tiro salvezza contro morte), la spada offre uno scambio. La spada può far riprendere il personaggio a combattere, se lo desidera; può infondergli un po’ della sua magia e farlo rialzare di nuovo al pieno delle forze. Però magari questo la indebolirà permanentemente. Oppure il personaggio dovrà dare qualcosa in cambio alla spada: una parte di sé. Magari accettando volontariamente di perdere permanentemente 1 punto di Costituzione. O di ridurre permanentemente i propri punti ferita massimi di una quantità X. La scelta rimane al personaggio. Cosa farà? Accetterà l’offerta? (un effetto del genere è particolarmente efficace se accompagnato ad un cambiamento esteriore: il personaggio diviene più pallido; gli occhi cambiano colore; i capelli cambiano colore, e così via)

L’effetto indesiderato non deve essere per forza meccanico, e può contribuire all’atmosfera che volete creare nel vostro gioco. Magari quella spada magica +3 che conferisce un bonus a tiro per colpire e danni  fa anche percepire vivide allucinazioni delle persone che sono state uccise con quella spada. Alcuni cercano di parlarti, ti guardano con le loro facce pallide e le labbra cianotiche, protendono le mani insanguinate verso di te e ti afferrano gridandoti “guarda cosa hai fatto… guarda cosa hai fatto!”. Altri ti guardano in silenzio, con gli occhi tristi, senza dire niente. Altri ti sussurrano… cose. E dunque che fai? La usi? Oppure la getti via prima che il rimorso ti faccia impazzire? Questa starebbe bene in un gioco dalle tinte dark fantasy.

In un gioco dalle tinte più spensierate, magari ingoiando una pozione si innescano dei piccoli effetti cosmetici e insignificanti determinati casualmente (es. il giocatore deve parlare in rima per i prossimi 10 minuti, gli occhi del personaggio cambiano colore ogni ora per 24 ore, etc.). Su internet potete trovare molte liste di effetti magici random, da cui potete prendere ispirazione.

Anche la Dungeon Master’s Guide di D&D 5E ha eccellenti consigli per la creazione di oggetti magici, da cui si può prendere spunto per assegnare effetti indesiderati; in particolare, consiglio di dare un’occhiata alle tabelle a pag. 143 (Minor properties, Quirks) e pag 219 (Beneficial e Detrimental Properties) per ispirazione.

Inserite oggetti che non servono a niente.

Questo funziona particolarmente bene in campagne dai toni non cupi, ma creando gli oggetti giusti può funzionare in qualunque campagna.

Ogni tanto fa bene inserire qualche oggetto diverso da “bonus di +3 ai tiri per colpire e ai danni”. Oggetti il cui scopo e origini rimangono elusivi e misteriosi, e che i giocatori non sapranno bene come utilizzare. Si spremeranno un po’ le meningi, vorranno magari fare tiri di conoscenze o simili (pensando che se il DM gliel’ha fatto trovare dev’essere per forza importante), forse sperimenteranno un po’, ma alla fine non caveranno un ragno dal buco e rimarranno solo interrogativi.

Va bene così.

Questi oggetti che “non servono a niente” hanno la funzione di intrattenere un po’ i giocatori, ma soprattutto di aumentare il senso del meraviglioso, del fantastico e del bizzarro. Considerate per esempio questo oggetto magico che ho inserito in una avventura dal tono weird fantasy:

Maschera dei molti destini. Quando questa maschera viene posta sul volto, permette al personaggio che la indossa di osservare una dimensione parallela, ma molto vicina a quella dei personaggi. In pratica, ciò che vede il personaggio quando indossa la maschera differisce solo per alcuni particolari da ciò che vede quando non la indossa. Ad esempio, uno dei compagni può non esistere nella dimensione parallela: il personaggio non riesce più a vederlo, oppure al suo posto vede un individuo completamento diverso che il giocatore non ha mai visto, oppure un individuo identico tranne che per qualche piccolo particolare (es. un neo a destra invece che a sinistra, colore di occhi e capelli diverso, vestiti lievemente diversi, e così via). Allo stesso modo, la stanza può differire per alcuni particolari da quella della dimensione del personaggio (per esempio, un quadro potrebbe mostrare una scena differente; oppure i mobili potrebbero essere disposti in modo lievemente diverso). Il personaggio continua ad essere fisicamente presente nella propria dimensione originaria, e tutti i suoi sensi tranne la vista continuano a percepire normalmente ciò che lo circonda. Può solo osservare l’altra dimensione, e non può comunicare o interagire in alcun modo con ciò che osserva.. Un personaggio vede sempre la stessa dimensione quando indossa la maschera, ma personaggi diversi vedranno dimensioni diverse.

A che serve un oggetto di questo tipo? Chi l’ha creato? A quale scopo? Queste domande dovrebbero rimanere senza risposta. Il fatto che non tutto possa avere una spiegazione o una risposta è importantissimo per mantenere il mistero e il senso del bizzarro. Questo oggetto non ha una funzione chiara in game; in realtà è un oggetto che esercita le sue funzioni a livello di metagame. Ovverosia: 1) creare un’atmosfera weird/bizzarra (l’avventura è weird fantasy, no?) 2) ricordare ai giocatori che la magia è un qualcosa che sfugge alla razionalità, che non possono completamente spiegare, e 3) suscitare un certo senso del meraviglioso e del fantastico.

È bene anche tenere presente che oggetti di questo tipo, cioè oggetti che “fanno flavour” ma non servono a nulla, non devono essere necessariamente magici – per esempio, sempre in una avventura dal tono un po’ weird, delle grosse giare voluminose con strane creature sospese in formalina potrebbero contribuire molto ad un certo tipo di atmosfera.

No ai supermercati degli oggetti magici

Se volete un modo facile facile per privare gli oggetti magici di qualunque senso di mistero e di meraviglia, non dovete far altro che inserire i supermarket degli oggetti magici, dove uno arriva col carrello della spesa e si sceglie gli oggetti che vuole. “Fanno diecimila monete d’oro. Bancomat o contanti?” “Bancomat grazie.” “Busta?”

…Per l’amor del cielo, assolutamente evitate i supermercati degli oggetti magici.

Incolpo direttamente D&D 3.x per aver popolarizzato questa idea sciagurata. Questa naturalmente è una mia considerazione personale: non c’è niente di male nei supermarket di oggetti magici di per sé – in una campagna high fantasy ad alta magia ci stanno. Però dopo l’iniziale meraviglia, renderanno la magia un qualcosa di ordinario e normale, il che va contro quello che volevamo fare.

Evitare i supermercati/negozi degli oggetti magici non vuol dire che non possa esistere un commercio degli oggetti magici. Magari gli oggetti magici sono molto richiesti da nobili o persone facoltose che li collezionano per poi sfoggiarli come segni di prestigio o ricchezza, un po’ come le opere d’arte, per cui è plausibile che ci sia una certa richiesta e anche  un certo traffico di oggetti magici. Un oggetto magico specifico potrebbe essere comprato, o meglio ancora barattato, ma si dovrà prima cercare qualcuno che lo possiede e convincerlo a cederlo… in qualche modo. Ogni acquisto/scambio di oggetti magici dovrebbe essere un evento negoziato individualmente con un particolare individuo, sia che i giocatori cerchino un oggetto o che desiderino venderlo. Magari esistono anche dei rari mercanti in possesso di oggetti magici, ma in questo caso non dovrebbero avere nel magazzino sul retro il set completo di spade, pugnali e coltelli in acciaio inox da +1 a +5 in sconto del 20% del prezzo di listino con tre pozioni in omaggio. Magari hanno 1-2 oggetti magici che si sono faticosamente procurati dopo lunghi e pericolosi viaggi in terre lontane. Quello che non dovrebbe succedere è che i giocatori possano entrare in un negozio e comprare tre spade lunghe +2 come se niente fosse, o vendere gli oggetti che hanno trovato durante l’avventura e ricevere immediatamente montagne di monete d’oro in contanti.

Tutto questo probabilmente avrà l’effetto collaterale di aumentare la rarità degli oggetti magici, o comunque limitarne la disponibilità. Questo può essere un problema se nel vostro gioco di ruolo di scelta si assume che i personaggi acquisiscano regolarmente oggetti magici salendo di livello.

Gli oggetti magici non si possono creare facilmente

La capacità di creare oggetti magici con facilità rischia di privare ben presto gli oggetti magici e la magia di qualunque fascino, e dunque è un assunto che può essere necessario cambiare.

Quello che vogliamo evitare è la produzione dell’oggetto magico “scientifica”: cioè ingrediente 1 + ingrediente 2  + … + ingrediente n  = oggetto magico desiderato.

Una possibile soluzione è: gli oggetti magici non si possono produrre, si possono solo trovare, stop. Questa è forse una soluzione drastica, ma perfettamente accettabile. Se invece volete che sia possibile produrli, dovreste renderlo un processo lungo, complesso, e non interamente controllabile. Trovo che le regole per la creazione degli oggetti magici presentate in D&D 5E (DMG 128-129) siano un buon punto di partenza. Per produrre un oggetto magico, un personaggio ha bisogno di una formula che descriva il procedimento. Il processo di creazione vero e proprio prevede che il personaggio lavori più o meno a tempo pieno per un certo periodo e copra il costo di produzione dell’oggetto magico: in pratica, paga 25 mo/giorno finché non copre un totale di monete d’oro che dipende dalla rarità dell’oggetto. Questa è una buona base; mi piace soprattutto l’idea della formula. Come migliorarla?

Innanzi tutto, nella formula inseriamo anche ingredienti bizzarri, un classico fantasy trope. Ad esempio, una pozione del volo potrebbe richiedere una piuma di un qualche creatura volante. Oppure una spada che infligge danni da fulmine potrebbe aver bisogno, tra gli ingredienti, di un frammento di una quercia abbattuta da un fulmine. Più un oggetto è potente/raro, più gli ingredienti dovrebbero essere bislacchi/fantastici, e soprattutto esoterici. Un frammento di una quercia abbattuta da un fulmine non sarà così difficile da trovare – è un oggetto concreto. E se invece uno degli ingredienti per una Dagger Of Venom (rara) fosse “la paura di un uomo morso da una vipera”? Come ti procuri un ingrediente del genere? Soddisfare questo requisito richiederà una certa dose di creatività da parte del giocatore – il GM in genere non deve fare niente, se non mettersi comodo e lasciarsi stupire dalla fantasia dei giocatori. Per esempio, io per una cosa del genere darei per buono se il giocatore pensasse di bagnare il pugnale con il sudore di un uomo morente morso da un serpente velenoso. Per gli oggetti veramente rari o speciali, sbizzarritevi con rituali elaborati o astrusi: magari il personaggio deve alzarsi tutte le notti a mezzanotte, per un mese, e dare da bere il proprio sangue ad una gallina completamente nera; alla fine del mese la gallina deporrà un singolo uovo nero come il carbone, che dovrà subire altri processi e rituali. Inoltre, possiamo stabilire che il rituale finale (o una parte del procedimento) debba avvenire in particolari luoghi di potere o in momenti particolari (es alle pendici di un vulcano, nelle profondità della terra, durante un’eclissi).

Ciliegina sulla torta, introduciamo un fattore di incertezza che renda il processo non totalmente deterministico. Per esempio, ecco una regola che potrebbe funzionare in D&D 5E: il personaggio deve tirare prove di Arcana successive (CD in base alla rarità dell’oggetto); il DM tiene separatamente conto di successi e fallimenti. L’oggetto viene creato se il personaggio totalizza un certo numero di successi (per es. 3, ma anche di più per oggetti rari) prima di totalizzare un uguale numero di fallimenti. Se il personaggio totalizza 3 fallimenti prima di ottenere 3 successi, l’oggetto non viene creato, o magari viene creato un oggetto, ma qualcosa va molto storto. In caso di successo, alla fine del processo, il DM potrebbe assegnare degli effetti indesiderati all’oggetto (come sopra) in base al rapporto successi-fallimenti. Per esempio, un oggetto creato con 3 successi e 1 fallimento potrebbe avere un singolo effetto indesiderato minore, mentre un oggetto creato con 3 successi e 2 fallimenti potrebbe avere due effetti indesiderati minori, o un singolo effetto indesiderato importante.

Limitate l’incantesimo Identificare.

La disponibilità di un incantesimo che permette di determinare istantaneamente le proprietà di un oggetto magico è un altro strumento a disposizione dei giocatori in grado di depauperare rapidamente gli oggetti magici del loro fascino. Per questo motivo, Identificare dovrebbe essere in qualche modo limitato più di quanto non lo sia già. Diciamo che se voleste eliminarlo del tutto, non sarò io a trattenervi; tuttavia questa è una soluzione un po’ estrema, e certamente l’incantesimo si può limitare senza eliminarlo. Si potrebbe renderlo un incantesimo di 2° o al limite 3° livello per esempio; oppure si potrebbero incrementare i costi materiali; oppure si potrebbe sancire che l’incantesimo, invece di spiattellare vita morte e miracoli dell’oggetto magico, magari invia visioni o frasi criptiche che vanno interpretate.

Naturalmente, come per gli altri consigli, limitare l’identificazione degli oggetti magici può non avere alcun senso a seconda di come concepite il gioco, o del ruolo che gli oggetti magici hanno nella vostra campagna.

Conclusioni

…Mi è di nuovo venuta voglia di inserire il Mazzo delle Meraviglie in una campagna. QUALCUNO MI FERMI!

 

 

Basta con le trappole loffie! Come creare trappole che SPACCANO.

Questo articolo si basa sulle considerazioni esposte nell’articolo Decostruendo il gameplay. Se non l’avete letto vi consiglio di farlo adesso, in quanto fornisce le basi per i consigli di seguito riportati.

Dardo avvelenato: GS1; meccanica; attivatore di posizione; ripristino manuale; Att + 8 a distanza (1d4 più veleno, dardo); veleno (sangue di radice, Tempra CD 12 resiste, 0/1d4 Cos + 1d3 Sag); Cercare CD 20; Disattivare Congegni CD 18. Prezzo di mercato: 700 mo.”

Questa è una trappola esemplificativa presa dal Manuale del Dungeon Master di D&D 3.5. Il fatto che una quantità enorme di DM siano nati e cresciuti con questa edizione, significa che ci sono chissà quanti DM che hanno letto una trappola così e hanno pensato “Ehi, questa è una buona trappola! Sì, è così che le trappole dovrebbero essere!”. Credenza rafforzata da anni di innumerevoli avventure targate WotC che presentano trappole simili.

Sarò brutale ma onesto: questa trappola fa schifo.

Sì, fa schifo.

Non c’è quasi niente che redima questa trappola. Vi hanno detto che una buona trappola è fatta così, ma non è vero.

Ora vi spiegherò come mai questa trappola fa schifo, e poi come creare trappole che non fanno schifo.

Perché le trappole dell’era d20 sono loffie.

In breve, perché le trappole dell’era d20 sono sistematicamente povere di gameplay. Se non sapete di cosa sto parlando: sì, dovreste davvero leggere il post. Cioè, non Il Post, il post precedente che dicevo prima.

Prima osservazione. Innanzi tutto, questa trappola parte dall’assunto che sia nascosta e si possa trovare con una prova di cercare con CD 20; e poi prevede che la disattivazione sia effettuabile con una prova di Disattivare Congegni CD 18. Questo è noiosissimo. Motivo uno, il ritrovamento della trappola e la sua disattivazione sono determinate con un metodo randomico. Il giocatore tira due dadi: con uno forse la trova, con l’altro forse la disattiva. Un po’ come dirgli: “tira una moneta: se fai testa trovi la trappola, se fai croce no”. Ovviamente le probabilità non saranno sempre 50/50, ma l’esito della prova sarà comunque determinato da un numero random uscito dal dado, con probabilità P di riuscire e probabilità 1-P di fallire. Se questo fosse un videogame, sarebbe un videogame in cui c’è un solo pulsante, che quando lo premi ti dà una probabilità P di vincere e una probabilità 1-P di perdere. Che due palle, eh?

Motivo due, trovare e disattivare la trappola in questo modo produce esattamente zero gameplay. Nel post Decostruendo il Gameplay abbiamo visto che attraverso le meccaniche puoi astrarre bene, o puoi astrarre male. Questo tipo di astrazione è noiosa: non ci sono scelte significative da fare. Tirare un dado non è gameplay.

Seconda osservazione. Questa trappola non pone un grande pericolo o pesanti conseguenze per i giocatori. C’è il veleno, ma al più è un fastidioso inconveniente. E se ci pensate è ovvio che debba essere così. Se gli esiti “trovare la trappola” e “disattivarla” sono fondamentalmente decisi a random, la trappola non *può* farti troppo male. Perché se fallisci uno dei due tiri (e ricordate: il tiro di dado è random), la trappola scatta. Dunque la trappola per estensione scatta a random, visto che alla fin fine sono due tiri di dado che lo decidono.

Immaginate il vostro DM che vi dà 1d20 e vi dice “bene, se fai 11 o meno sei morto”.

La vostra reazione sarebbe: “Co… COSA?!? Ma che cazz… Io non… Questa è una STRONZATA! Non è giusto!”

E avreste ragione.

Notare, io non sono della scuola “guanti di velluto”, per cui il vostro personaggio è uno special snowflake che guai se dovesse morire sennò il giocatore poverino ci rimane male. Io sono della scuola che i personaggi dovrebbero rischiare concretamente di morire.

Però il tuo personaggio non dovrebbe morire a caso. Dovrebbe morire perché se lo è meritato. Dev’essere la conseguenza di una scelta stupida, ma fatta liberamente in risposta ad una situazione nota dove tu, giocatore, hai potuto soppesare rischi e conseguenze. Farlo morire perché ha fatto 9 col d20, senza che tu abbia potuto farci niente, è ingiusto.

Le trappole, avendo in D&D 3.5 una probabilità random di scattare, non possono farti troppo male: è meglio se ti fanno un tot di danno simbolico, ma non abbastanza da rappresentare un serio pericolo per te. In questo caso, anche se scattano perché hai fatto 9 col d20 alla prova di Disattivare Congegni, non succede niente. Ti becchi qualche danno, e finisce lì. “Oh no, che sfortuna, 3 danni. Vabbé sopravviverò.” Ci può stare insomma. (Il danno alla costituzione è già più interessante, ma rappresenta comunque un inconveniente alla fine temporaneo.)

Questa cosa è una salvaguardia che impedisce ai personaggi di morire ingiustamente per un tiro random, però priva anche le trappole di qualunque mordente. Le rende noiose e patetiche. Diventano sostanzialmente delle tasse sui punti ferita che un DM esattore impone ai giocatori quando decidono (o devono) passare da dove c’è la trappola. A un certo punto evitare la trappola o farla scattare non è così rilevante per i vostri giocatori. Non è una scelta così significativa. È come avere una bomba in mano che fa tictac tictac, e tu pensi che oh cazzo sta per esplodere sono morto, ma poi esplode e in realtà viene fuori che non era una vera bomba, che c’erano dentro solo dei coriandoli. La prima volta è divertente, poi capisci il trucco e non ti fa più paura. Se tutte le bombe sono così, a un certo punto fottesega se esplodono o no. Mi becco un po’ di coriandoli nei capelli, sai che storia.

Io non vorrei mai mettere nel mio dungeon una trappola loffia come quella lì sopra.

E voi?

Come creare trappole che non fanno schifo.

Adesso vediamo come iniettare un po’ di gameplay nelle vostre trappole perché non facciano più schifo.

In Decostruendo il gameplay abbiamo visto che ci sono fondamentalmente due modi per avere gameplay: o gameplay freeform, slegato dalle meccaniche, oppure meccaniche realizzate in modo tale da produrre gameplay. La cosa veramente importante è inserire scelte significative.

In questo caso sfruttiamo il gameplay freeform, perché è immediatamente comprensibile come sfruttarlo. Sfruttare il gameplay freeform ha pro e contro – aumenta potenzialmente molto l’interazione col gioco annullandone l’astrazione, però non avrete alcun supporto meccanico dal sistema, perché a tutti gli effetti non lo state più usando. È tutto sulle vostre spalle. Si potrebbe addirittura discutere se state ancora giocando a D&D o no. Inoltre, togliendo l’astrazione del tiro di dado, tutto sarà più lento. Comunque questo implica anche un’altra cosa: questi consigli sono sostanzialmente system-agnostic. Il che è una buona notizia.

Consiglio 1.

Innanzi tutto, rendiamo le trappole di nuovo temibili. Una trappola dovrebbe essere una bruttissima notizia per i vostri giocatori: li dovrebbe far stare sul bordo della sedia a rosicchiarsi le unghie dalla preoccupazione, mi spiego? Perché se le trappole fanno male, capire come evitarle o neutralizzarle diventa l’occasione per scelte molto significative: la conseguenza è potenzialmente la morte. Quello che fai o non fai ha una posta alta. Che faccio? cerco un’altra strada, oppure tento di superare la trappola? E come?

Quindi lasciamo perdere quei danni che non spiegano niente e non fanno paura a nessuno. Una trappola dovrebbe fare male. Dovrebbe fare paura. Dovrebbe causare qualcosa che i vostri giocatori non vogliono veramente che succeda. Come ottenere questo è a scelta vostra. Quello che penso io è che una trappola dovrebbe essere qualcosa che se ti becca c’è una possibilità concreta che ti secchi sul posto o che ti succeda qualcosa di veramente brutto. Mani o gambe tagliate, occhi cavati, roba così. Questo perché vogliamo conseguenze, conseguenze che contino davvero: se la nostra trappola ha delle serie conseguenze, abbiamo un ostacolo che i giocatori sono davvero interessati a superare o evitare. Comunque so già che qualcuno storcerà il naso. Ci sono due scuole di pensiero sulle trappole che uccidono o causano menomazioni permanenti. Per alcuni sono una componente essenziale del gioco, per altri sono un qualcosa da evitare. Non c’è una risposta universalmente giusta – dipende da voi, dal vostro gruppo, e dal vostro stile di gioco. Se proprio non vi piace, la trappola non deve per forza fare queste cose. Basta che la trappola crei tensione e che essere colpiti sia qualcosa che i giocatori veramente non vogliono che succeda. Se ottenete questo effetto con danni che non mettono a rischio la vita dei personaggi, va benissimo. In generale vi consiglio di evitare le trappole che ammazzano con facilità o provocano menomazioni permanenti se nel vostro gioco i giocatori sono molto investiti nei loro personaggi, a tal punto che perderne uno o menomarlo permanentemente li alienerebbe dal gioco.

“Wut? Ma avevi detto poco fa che le trappole che ti ammazzano sono sbagliate…” Aspetta. Ne parliamo tra poco.

(Ah, credo sia ovvio ma non si sa mai: se decidete di incrementare significativamente la letalità delle trapole, non fatelo da un giorno all’altro senza dire niente a nessuno: informate i vostri giocatori del cambiamento.)

 

Perché vedi, il problema delle trappole che ti ammazzano non è che ti ammazzano. Il vero problema è quando le trappole ti ammazzano senza preavviso o senza che tu abbia potuto farci nulla. Ne abbiamo parlato prima: una morte subita dal giocatore senza possibilità di prevenirla è una morte che dal suo punto di vista è arbitraria. Tanto vale che il DM dica ai giocatori “vi crolla il soffitto addosso, siete morti“. Anche se c’è il tiro salvezza è uguale. Ora hai il, boh, 40% di probabilità di subire qualcosa di arbitrario. Ma il 40% di una cosa che non dovrebbe succedere è sempre troppo.

Come puoi ovviare a questo? Abbiamo visto che una strada è rendere la roba arbitraria insignificante (la strada presa dalla 3.5). Cosa fai se subisci un danno arbitrario, e questo danno arbitrario ti ammazza? mandi affanc*lo il DM e gli sfasci la macchina con una mazza chiodata. Invece se questo danno è arbitrario ma insignificante dici “vabbé”. Però questa soluzione porta a trappole loffie come abbiamo visto.

L’altra possibile soluzione è rendere il danno non più arbitrario. Quindi…

Consiglio 2.

Quindi, come seconda cosa, rendiamo ovvia la presenza di una trappola. Questo non vuol dire che la trappola stessa debba essere in bella vista. È meglio se lo è, ma può essere anche nascosta. Non vuol dire nemmeno che il funzionamento della trappola debba essere ovvio. L’importante è che sia ovvio che c’è una trappola. È meglio se la trappola si vede direttamente, ma se non si vede direttamente, ci dev’essere qualcosa che urla “TRAPPOLA! PERICOLO! MORTE!“. Una roba che devi essere scemo per non capire che c’è qualcosa che non va. Al limite, può anche andare bene se la presenza di trappole è chiaramente deducibile dal contesto – per esempio, se i giocatori stanno esplorando il Terribile Dungeon delle Trappole Mortali, dovrebbe essere palese che al suo interno ci saranno trappole. Comunque la mia opinione è che meglio non essere subdoli: se siete indecisi, meglio andare sul sicuro e rendere la trappola ovvia.

Più la presenza della trappola è ovvia, meglio è.

Sento già da quaggiù la gente che si gonfia, oltraggiata. “C-COSA? TRAPPOLE NON NASCOSTE? MA QUESTA È PAZZIA!”.

E invece no.

Questo non è intuitivo. Voglio dire, nella finzione del gioco le trappole hanno formalmente lo stesso scopo che hanno le trappole nella vita reale: sono lì per tenere fuori gli intrusi. E nella vita reale, una trappola è ovviamente più efficace se ha possibilità di colpire un intruso di sorpresa e farlo fuori indisturbata. Dunque, se questa logica viene applicata al gioco, istintivamente pensiamo che una buona trappola è una trappola che non si vede, non si sente, si attiva senza che il personaggio se ne accorga e lo ammazza senza che possa farci niente. Ha senso. Nella vita reale, una trappola ovvia è una pessima trappola, no?

Ecco: in un gdr invece no.

Questo perché al di fuori della finzione del gioco, i motivi veri per il quale inserite le trappole sono 1) per mettere degli ostacoli e delle sfide da superare e 2) per far giocare i giocatori. Sì, una trappola è efficace in real life se ti ammazza senza che tu possa evitarlo e prima che tu possa dire “ba”; ma abbiamo detto che in un gdr questa è una pessima trappola perché è arbitraria. Invece, una trappola è efficace in un gioco di ruolo se ti fa giocare. Quindi quella che è una trappola efficace nella realtà non è necessariamente una trappola efficace in un gioco di ruolo.

Ricordate il dardo avvelenato che abbiamo visto all’inizio del post? Ma quale Cercare CD 20. Ci devono essere dei buchi nel muro grossi così. E lo dovete dire onestamente ai giocatori, appena arrivano. “Le pareti del corridoio davanti a voi sono cosparse di profondi fori e feritoie, il cui fondo non riuscite a vedere”. Non basta: mettiamoci qualcos’altro. “Accasciato ad un lato della parete giace uno scheletro ricoperto di ragnatele”. Se proprio volete portarlo al massimo: “Dalle sue coste sporge una freccia, conficcata nel muro retrostante”. Magari ci sono anche altre freccie/aghi conficcate nel muro o per terra.

Questo serve a due scopi. Prima di tutto, l’ovvietà giustifica la trappola letale perché non è più una cosa arbitraria. Se dopo aver visto ‘sta roba cammini in mezzo al corridoio come se niente fosse, sei un c*glione. Detto senza mezzi termini. Una freccia con una neurotossina che ti insta-killa te la meriti tutta. E se questa freccia effettivamente ti becca e ti ammazza instantaneamente, non è una morte arbitraria decisa dal GM str*nzo. Hai agito stupidamente. Quanto più una trappola è non-random/ovvia, tanto più puoi giustificare la sua letalità.

Perché non una trappola ovvia e innocua? Beh, se ti vedi davanti una distesa di scheletri, un corridoio pieno di volti minacciosi e demoniaci con i buchi al posto degli occhi da cui presumibilmente escono frecce avvelenate, ti aspetti che sia una roba seria. Se poi i dardi avvelenati ti fanno 2 danni e una bacchettata sulle mani, esci fuori e ti chiedi: “…tutto qui?” La solita storia della bomba piena di coriandoli.

Seconda cosa, facciamoci una domanda. Quando aggiungete le trappole al vostro dungeon qual è il vostro scopo reale? È far tirare un dado ai giocatori, o farli giocare? Perché vi do una brutta notizia: se la trappola si svolge più o meno così: “Tiro di Cercare >Trappola trovata > Tiro di Disattivare Congegni > Trappola disinnescata”… beh, non state giocando. State tirando due dadi. Una trappola nascosta, per trovare la quale i giocatori devono tirare un dado, è una trappola in cui non c’è nessuna scelta da fare, niente da decidere. Davanti a quel muro pieno di fori e feritoie misteriose invece, cosa pensate che faranno i giocatori?

Oh, avranno un sacco di scelte. Giocheranno.

Intanto c’è da capire cosa attiva la trappola. Qualcuno tenterà di tastare il terreno davanti a sé con un bastone per vedere se la trappola si attiva a pressione. Poi c’è da capire come evitare che scatti. Qualcuno magari tenterà di coprire i buchi con un incantesimo o altro. Diciamo che sì, la trappola si attiva a pressione: come supereranno l’ostacolo? qualcuno volerà. Qualcuno salterà. Qualcuno… boh, ma che ne so, fanno sempre qualcosa a cui non pensi.

Tadà: gameplay! Tutto gameplay che vi sareste persi se aveste tirato quella c*zzo di prova di Cercare e Disattivare Congegni.

Consiglio 3.

Crea trappole con cui si possa interagire. (Questo in realtà è più un’estensione del consiglio precedente).

Dopo l’ovvietà, un altro elemento controintuitivo di una buona trappola è infatti la possibilità di interazione. Tipo: una booby trap, come una stanza che appena apri la porta si riempie silenziosamente di gas invisibile e inodore sparato da invisibili fessure nelle pareti, e che ammazza qualunque essere vivente nel raggio di 18 metri in 30 millisecondi, è una trappola efficacissima in real life, ma è una trappola loffia in D&D, e in ultimo non è molto dissimile da “fammi 11+ col d20 o sei morto”. 

Una buona trappola è una con si può interagire, perché è lì che sta il gameplay. Con “interagire” intendo che la trappola dovrebbe poter essere studiata ed esplorata: i personaggi dovrebbero poter raccogliere informazioni su di essa (per es. cosa esattamente la fa scattare, cosa succede quando scatta) tramite un cauto processo di osservazione e/o sperimentazione. Per esempio, evita il gas invisibile, incolore e inodore che viene fuori da fessure invisibili e che scatta in modo impercettibile, con un meccanismo non individuabile, quando i giocatori non si sono ancora resi conto della presenza di una trappola. Meglio una stanza che si riempie, chessò, di acqua o sabbia da feritoie ben identificabili, e che si attiva in seguito ad una azione che i giocatori devono compiere deliberatamente invece che per sbaglio quando ancora non sanno che sono in presenza di una trappola. Naturalmente, è super ok se il meccanismo che attiva la trappola è subdolo o individuabile solo con una osservazione attenta, ed i giocatori finiscono per attivarla perché hanno trascurato la fase del “diamoci una bella occhiata intorno”. Cioè, è super ok se e solo se hanno avuto ragionevolmente modo di rendersi conto che da qualche parte c’era una trappola, cosa che avrebbe dovuto farli entrare nella fase “diamoci una bella occhiata intorno” (ma questo è il consiglio 2 – avete seguito il consiglio 2, no?). Insomma, se vuoi il gas, fà che sia colorato di verde marcio, che sia maleodorante e che esca rumorosamente da punti ben identificabili nelle pareti. Una trappola che scatta aprendo una porta non è una grande idea, a meno che non sia in qualche modo evidente che c’è una trappola che scatterà quando apri la porta. (Ora devi trovare il modo di aprire la porta senza farla scattare, o comunque disarmare la trappola). Non devi fregare i giocatori. “Hai aperto la porta? ops sei morto…” non è divertente.

Ancora meglio, prendi qualcosa con cui si può interagire fisicamente, come delle enormi lame a pendolo. O una statua che spara fiamme dalla bocca. O una fossa piena di coccodrilli. Cosa faranno i giocatori? Tenteranno di bloccare le lame? tenterano di aggirarle? Tenteranno di passarci attraverso? (auguri!). Questo è tutto gameplay. I tuoi giocatori stanno giocando. È quello che vuoi. Naturalmente questi sono tutti esempi di trappole molto semplici e non molto originali; tu sbizzarrisciti pure e elabora trappole diaboliche.

Interazione vuol dire anche che è super ok se esiste un meccanismo accessibile per bloccare le trappole o disattivarle. Per esempio, i dardi avvelenati escono dai buchi, che si possono tappare. Altro esempio: una trappola meccanica (es. la classica stanza con le pareti che si avvicinano) magari funziona con degli enormi ingranaggi che girano in bella vista, magari dietro a una spessa lastra di vetro. Nella vita reale questa sarebbe una trappola piuttosto stupida, no? E invece in un gdr può funzionare. I giocatori rompono il vetro, e poi ci infilano la spada, o ci buttano dei sassi etc e il meccanismo si inceppa. Ammettibilmente non si tratta di una trappola particolarmente impegnativa, ma sarà comunque divertente per loro. Hanno fatto delle scelte (invece di tirare il dado di Disattivare Congegni), e hanno giocato. Gameplay. Se l’interazione consiste in diverse azioni da effettuare, si potrebbe anche dire che ad un certo punto la differenza tra trappola e puzzle può sfumare un po’: va tutto bene, è ok.

Nella maggior parte dei casi comunque non è necessario elaborare dei meccanismi per bloccare o disattivare la trappola: in genere la creatività dei giocatori ha la meglio su quasi qualunque ostacolo. Poneteli davanti all’ostacolo, e rilassatevi mentre loro si spremono le meningi su come superarlo.

Problemi

I problemi sono essenzialmente due. Uno: stiamo parlando di gameplay freeform. Non avete più il sistema ad aiutarvi. Le trappole di questo tipo sono impegnative per il DM, che deve sia idearle nei particolari, che gestirne l’interazione con i giocatori. Secondo, ovviamente riportare in gioco tutto il gameplay riassorbito nelle due prove (Cercare CD 20 e Disattivare Congegni CD 18) implica anche che una notevole quantità di tempo sarà dedicata all’interazione con la trappola, che invece “di default” è astratta in due tiri al tavolo (1 minuto di gioco? 30 secondi?). Un gioco così è più lento. Se tutta ‘sta roba vi sembra una perdita di tempo, fate pure i tiri astratti. Tuttavia, per come la vedo io, se dovete inserire una trappola come quella all’inizio del post (cioè successo in due tiri di dado o un po’ di danno), allora tanto vale non metterle affatto. Perché quella trappola lì è proprio noiosa. Cioè, non saprei quale potrebbe essere lo scopo di inserire una trappola così.

Un problema che può porsi è quella di classi con la capacità di trovare e/o disattivare trappole. Perché qui si crea il vecchio problema della mancanza di astrazione/sovrapposizione giocatore-personaggio. Come integrare il gioco di cui sopra con capacità di questo tipo?

L’ideale sarebbe riadattare le meccaniche, ma avevamo detto che optavamo per la soluzione freeform. Una soluzione (provvisoria?) che offro è la seguente. La capacità di trovare trappole e disattivare si può gestire 1) dicendogli chiaro e tondo che c’è una trappola, e 2) dicendogli come funziona.

“Le pareti del corridoio davanti a voi sono cosparse di profondi fori e feritoie, il cui fondo non riuscite a vedere bla bla bla”

“cerco trappole, e se le trovo tento di disattivarle”

(vedete voi se farlo tirare)

“Sì, questo corridoio è chiaramente una trappola. Ci sono delle piastre a pressione sul pavimento, se ci salite sopra la trappola si attiva. Aghi cosparsi di un veleno probabilmente letale partiranno dai fori che vedete sulla parete, molto probabilmente uccidendovi sul colpo. Conosci esempi di trappole simili, in effetti. Dovete fare in modo di non salire sulle piastre a pressione, oppure far sì in qualche modo che le frecce non escano dai fori o non possano colpirvi”.

Sì, questo rende la capacità del personaggio un po’ meno utile perché la trappola non è in effetti disattivata, però: 1) confermare un sospetto (cioè che ci sia una trappola, e il suo esatto funzionamento) è comunque utile per i giocatori. 2) le informazioni di cui sopra semplificano il lavoro di problem-solving, ma non lo eliminano; quindi il gameplay rimane, perché c’è comunque da capire come evitare ‘sta trappola. Magari iniziaranno a guardare tra la roba che hanno nello zaino, e si accorgeranno che la cera delle candele che giacciono inutilizzate nel loro zaino può essere usata per occludere i fori.

Questo in gioco non è meno soddisfacente. Prendete questo spezzone di Indiana Jones (il primo minuto). (Osservazione tra parentesi: andiamo, non venitemi a dire che qui la trappola è nascosta. Guardate tutti quei buchi nel muro. È ovvio che c’è una trappola. Eppure non fa meno paura, vero? Anzi.) Vedete come Indiana Jones capisce subito che c’è una trappola, e capisce subito come funziona? A quel punto, tutto quello che deve fare per non far scattare la trappola è saltellare da una mattonella all’altra, evitando le evidentissime piastre sul terreno. Non sembrerebbe granché come trappola, vero? Cioè, il compito non è così difficile: Indiana Jones non ha fatto chissà che cosa. Eppure l ‘intera sequenza non fa questo effetto nel film. E infatti non lo farà ai vostri giocatori.

Inoltre, anche se la prova del personaggio fallisse, ora non avete completamente perso il gameplay: non è che la trappola non viene più individuata.

Ci sono senz’altro altre possibilità per gestire la cosa, ma tra quelle che mi sono venute in mente, questa mi sembrava quella più semplice e sensata.

E D&D 5E?

Come già mi è capitato di affermare in altri contesti, la 5E tende a fare le cose in modo più equilibrato della 3.5. Questa è un esempio di trappola in 5E

POISON DARTS
Mechanical trap

When a creature steps on a hidden pressure plate, poison-tipped darts shoot from spring-loaded or pressurized tubes cleverly embedded in the surrounding
walls. An area might include multiple pressure plates, each one rigged to its own set of darts.
The tiny holes in the walls are obscured by dust and cobwebs, or cleverly hidden amid bas-reliefs, murals, or frescoes that adorn the walls. The DC to spot them is 15. With a successful DC 15 Intelligence (Investigation) check, a character can deduce the presence of the pressure plate from variations in the mortar and stone used to create it, compared to the surrounding floor. Wedging an iron spike or other object under the
pressure plate prevents the trap from activating. Stuffing the holes with cloth or wax prevents the darts contained within from launching. The trap activates when more than 20 pounds of weight is placed on the pressure plate, releasing four darts. Each dart makes a ranged attack with a +8 bonus against a random target within 10 feet of the pressure plate (vision is irrelevant to this attack roll). (If there are no targets in the area, the darts don’t hit anything.) A target that is hit takes 2 (1d4) piercing damage and must succeed on a DC 15 Constitution saving throw, taking
11 (2d10) poison damage on a failed save, or half as much damage on a successful one.

 

Ehi, niente male. Questa è roba su cui si può lavorare. Questa trappola è molto più concreta della precedente (che era un insieme di numeri). Direi che è fatta quasi bene. Qui senz’altro ci si può tirare fuori molto più gameplay che dalla stringa di numeri della 3.5.

Tra i problemi che si porta dalla 3.5, c’è  il fatto che la trappola non è ovvia, e serve una CD 15 per trovarla. Ma pensate a quanto gameplay andrebbe sprecato se i personaggi fallissero quella prova di Perception. E allora perché non andare direttamente alla roba buona? Perché fare quella prova? Qual è il ruolo di quella prova, che se viene fallita ti perdi un sacco  di gameplay? Non c’è nessun ruolo – e allora basta prove inutili. Trappola ovvia: ditegli chiaramente di quei c*zzo di fori nel muro, fategli capire che c’è una trappola. Poi se vi dicono che controllano sul pavimento, potete far fare loro anche quella DC 15 Intelligence (Investigation) check, così che possano dedurre “the presence of the pressure plate from variations in the mortar and stone used to create it, compared to the surrounding floor”.

Conclusioni

Se volete aumentare il gameplay nelle vostre trappole, avete bisogno di una trappola:

  1. che faccia male;
  2. la cui presenza sia ovvia;
  3. con cui si possa interagire.